La nostra filosofia

L'economia sociale di mercato?

di Giulio Tremonti

Prolusione del Ministro Giulio Tremonti tenuta all’Università Cattolica del Sacro Cuore in occasione dell’inaugurazione dell’A.A. 2008-2009

Eminenza reverendissima, rettore magnifico, signori professori, autorità, signore e signori e - gli ultimi saranno i primi - cari studenti. Nel titolo di questa prolusione, il punto di domanda posto dopo le parole economia sociale di mercato non è posto a caso. Che cos'è economia sociale di mercato? Non ci è mai stato spiegato cos'è l'economia sociale di mercato. Siamo qui per provare a farlo. In effetti la formula sembra contenere una contraddizione in termini, una contradietio in adjecto fra il sostantivo mercato e l'aggettivo sociale; una contraddizione tra la parola mercato che indica diritti di proprietà, accordi di scambio ed effetti di utilità marginale e l'aggettivo sociale, che invece evoca ciò che è comune a un insieme di persone oltre alla massimizzazione dell'utilità individuale.
In effetti ciò che per alcuni è difficile se non impossibile da capire - che l'economia possa anche essere sociale e che il sociale possa anche essere nell'economia - per altri a partire io penso dai cattolici, il cui nome è in questa università, è più facile e in qualche modo più naturale. In effetti la contraddizione chiusa nella formula non è vera ma falsa, non è ontologica ma puramente cognitiva, non è assoluta ma relativa. Dipende dal modo con cui uno vede le cose. E a questo proposito - come vedere le cose - vorrei anticipare e semplificare. Nel tempo presente l'economia sociale di mercato non è il tentativo di replica di esperienze politiche iniziate in Germania a partire dal dopoguerra, con successo, e poi transitate e ricalcate ancora nei programmi dei partiti popolari europei.
E non è neppure un modo per organizzare per linee di composizione orizzontale invece dello scontra verticale il rapporto tra lavoro e capitale, come si diceva una volta, o per definire il miglior apporta possibile, come si dice ora, alle parti sociali. L'economia sociale di mercato non e solo questo, è soprattutto altro. U economia sociale di mercato è nella dimensione sociale e funzionale del rapporto tra lavoro, capitali e parti sociali, ma è nell'essenza morale del rapporto fra l'etica e l'economia Prima di avanzare su questa linea devo fermarmi e pagare un tributo a chi ha cominciato, e con molto coraggio intellettuale, a pensare in questo modo nel tragico periodo fra le due guerre mondiali. Non un tributo al radicalismo di chi, finito al laissez faire, opponeva il primato della totale discrezionalità del potere politico tanto da scrivere dottrine così generali da es- sere buone tanto per le democrazie quanto per i totalitarismi, sia rossi che neri.
E' un tributo che va pagato a chi già allora a ridosso e nel cuore della Germania nazista parlava di non necessaria contrapposizione tra capitale e lavoro, di cooperazione volontaria di bene pubblico di protezione sociale di mercato e di sociale non come di concetti separati ma come parte di unico concetto ispirato dall'etica. E' in specie nel 1940 che venne fondata la rivista Ordo, per illustrare l'ordine del mercato come ordine costituzionale, incrocio e sintesi tra l'antica matrice liberale e la nuova e necessaria dimensione istituzionale. Per individuare nella legge costituzionale e ordinaria, per trasferire nell'economia i valori superiori dell'etica. Nel tempo presente si manifesta il carattere fondamentale di quella dottrina. Nella crisi che stiamo vivendo, la crisi di un paradigma, di un modello sociale che negli ultimi 10-15 anni è stato dominato dall'ideologia della domanda di beni di consumo, magari superflui, meglio se comprati a debito. Questo configura la stuttura della nostra società presa nel parossismo del consumo come nell'immagine dell'Angelus novus che ora avanza verso la tempesta con la testa rivolta all'indietro. E poi la crisi del positivismo che in pari tempo come in un folle oblio del diritto naturale cì ha illuso che tutto potesse essere dominato da altro che non da quello che sta nella nostra tradizione, nell'idea del giusto ordine, in quella visione del giusto ordine sociale cui si ispira anche il magistero della chiesa. La separazione tra morale, diritto e economia, l'effetto del positivismo, ha prodotto una visione dell'uomo e della società in cui la morale non è altro che una scelta solo e irriducibilmente soggettiva. Il diritto non è altro che l'esercizio di un comando da parte di chi detiene il potere, justum quia jussum, e l'economia non è più che un meccanismo anonimo di soddisfacimento di preferenze individuali e irrazionali, de gustibus non disputandum est... Diritto morale ed economia sono stati separati solo per effetto dell'unificazione in una visione positivistica e utilitaristica, E la globalizzazione ha accelerato questo processo e l'ha sublimato e ha favorito l'illusione che il singolo possa sempre e sempre più solo discernere il bene dal male senza l'aiuto della morale, della tradizione, sulla base dì astrazioni pseudo scientifiche piuttosto che sulla base della ragione storica, come se potessero essere frantumati l'uomo i valori il tempo lo spazio e la storia. In particolare una dottrina è stata presa da questa ubrys una dottrina economica che si è illusa di prevedere in vitro i fenomeni so- ciali esattamente come si fa per i fenomeni naturali. L'acqua bolle a X gradi e gela a Y gradi. Algoritmi, sublimazione di dottrine hanno portato in modo parossistico alla situazione di crisi in cui ci troviamo.
Se posso fare un'immagine è come vivere in un videogame: lì però hai la fortuna di spegnere, game is aver, e questo è un videogame che non è terminato. E come nei videogame affronti un mostro, lo batti, ti stai rilassando e ne arriva un altro più grande del primo, così il primo mostro è stato quello dei subpríme e in qualche modo è stato gestito; il secondo mostro è stato il collasso del credito e in qualche modo è stato gestito; il terzo la bancarotta delle principali istituzioni finanziarie e in qualche modo è stato gestito; il quarto è stato il collasso delle Borse ma dietro l'angolo ci sono altri mostri: le carte di credito, le attese bancarotte di società prodotte dalle difficoltà di classamento dei corporate bond e poi il mostro dei mostri, quello dei derivati su cui si presenta la follia del rischio incalcolabile, quello degli effetti non intenzionali ma collaterali, ma quello non definibile ex ante, e non gestibile se non con procedure che potrebbero evocare nel dominio dell'economia l'antica sapienza dell'anno sabbatico. Ma cerchiamo di capire perché siamo dentro a questo videogame. La crisi, si dice, è finanziaria, ma non è solo finanziaria, e paradossalmente è troppo semplice definirla solo finanziaria.
La crisi è globale per un doppio ordine di ragioni: ha un'estensione globale ma soprattutto è globale perché ha origine nella globalizzazione. E' abbastanza diffusa ora una ricostruzione degli effetti ma non è chiara la definizione delle cause.
Quando nella storia si aprono i grandi spazi sempre si producono crisi. E' stato così per la scoperta geografica dell'America, è così con la scoperta economica dell'Asia. Io credo che la ragione della crisi sia nel tempo e nel modo della globalizzazione. Nel tempo, concentrato e poi esploso nell'arco di pochi anni - nel 1994 a Marrakech si definisce il trattato sul commercio mondiale a cui l'Asia aderisce nel 2001, pochi anni dopo - fenomeni di questo tipo che hanno un'intensità storica drammaticamente forte, che non sono evitabili, tuttavia nella storia si sono manifestati nell'arco della longue durée, occupando la vita degli uomini e il passaggio tra le generazioni non fatti così forti in così poco tempo. Non poteva essere la cascata dei fenomeni evitata ma certamente è stata intenzionalmente accelerata e poi troppo a debito, e adesso comincia a essere chiaro cos'è successo. Caduto il muro di Berlino, finito il comunismo, l'America ha spostato l'asse del suo potere verso l'Asia e ha fatto un patto basato sulla divisione prima del mondo: l'Asia produce merci a basso costo e l'America le compra a debito. Con il debito interno, la politica dei mutui ipotecari e altro;
e con debito esterno, contraendo debiti con la stessa Asia. Troppo in fretta e troppo a debito. Ed è su questa base e nello scenario di questi squilibri commerciali, culturali e sociali che si inserisce il fattore degenerativo della tecnofinanza producendo sull'ethos capitalista una distorsione fondamentale rispetto alla base protestante del capitalismo che è l'etica delle intenzioni e l'etica delle responsabilità. II capitalismo che si è sviluppato nell'ultima decade si è staccato anche da queste due forme originarie di etica: primo, per secoli i banchieri hanno raccolto denaro sulla fiducia, prestato denaro a proprio rischio valutando propriamente il rischio. La nuova tecnica della finanza- consente a chi raccoglie il denaro di liberarsi dal rischio, secondo un paradigma per cui più vendi il rischio, meno rischi e più guadagni. E il rischio ha cominciato a circolare. Esiste ampia letteratura che dimostra come questi meccanismi abbiano avuto in realtà una funzione positiva di riduzione progressiva del rischio, ne avrebbero beneficiato, dei derivati, persino i contadini indiani. Insomma come se la grande scoperta sociale dell'Ottocento, l'imposta progressiva, fosse poi colmata dalle nuove dottrine e dalle nuove tecniche, superata dalla finanza derivata, non esattamente a fin di bene.
Questo ha fatto degenerare tutti modelli, c'è una antica formula secondo cui i banchieri ti prestano l'ombrello quando c'è il bel tempo, e te lo ritirano quando invece viene la pioggia. Qui è avvenuto l'opposto:
più debito e ancora più debito. E la creazione dell'arte di vivere indebitati, grazie al buon cuore delle banche, e nella progressione di un modello che, basato sull'azzardo matematizzato dei derivati, poi ha creato, e sta creando, effetti progressivi di crisi. Secondo, la possibilità di sviluppare attività economiche e finanziarie, il nuovo capitalismo emergente e performante, fuori dalle giurisdizioni ordinarie. E' stato detto che questo tipo di evoluzione degenerativa del capitalismo è dovuto alla deregulation. In parte è stato così e in effetti nel '95, '97, '99 e nel 2000, in America vengono formalizzati quattro provvedimenti legislativi assolutamente orientati nel senso della deregulation finanziaria. Ma non è così vero in assoluto. L'Europa è un'area fortemente regolamentata, eppure è un'area su cui -C'è l'impatto della crisi, lo credo che l'essenza del problema non sia tanto quella della deregulation, quanto della possibilità di sviluppare delle attività fuori da ogni tipo di giurisdizione. La struttura geopolitica che si è aperta nel mondo ha consentito di fare shopping di legislazione, di sviluppare atti- vità non solo in aree caratterizzate da una giurisdizione ordinaria, formale, sostanziale, ma anche in aree che erano formalmente delle giurisdizioni, ma sostanzialmente erano aree nelle quali l'unica regola, sostanziale anche non formale, era quella di non avere regole. Ed è così che una quota importante del capitalismo è entrato in quello che si direbbe adesso il mondo della anomia. Terzo. Il capitalismo è basato su uno schema tipico, un idealtipo, che è quello della società di capitali. Ed è sullo schema della società di capitali come è organizzata, che si è sviluppata una parte enormemente rilevante di funzionamento del capitalismo e i controlli giurisdizionali, amministrativi, mediatici, giudiziari, hanno presente lo schema della società per azioni. La parte affluente e più dinamica e performante del capitalismo è uscita dallo schema della società per azioni e ha utilizzato altri strumenti non necessariamente incorporati e formalizzati in giurisdizioni forti Hedge fund, equity fund, sono strumenti che rappresentano una evoluzione assolutamente esterna rispetto allo schema legale di base del capitalismo, che è la società per azioni. Infine, il capitalismo, la società per azioni si basa - e questo è, come dire, un tributo che va pagato a un antico francescano -sul criterio della partita doppia. Il criterio della partita doppia si basa fondamentalmente e basicamente sulla distinzione tra conto patrimoniale e conto economico. Non esiste l'uno senza l'altro e non esiste l'altro senza l'uno. Diversamente l'ultimo capitalismo si è spostato solo sul conto economico, ha abbandonato la base del conto patrimoniale. Questo non è un passaggio contabile, è un passaggio politico e morale fondamentale. Il conto patrimoniale è il mondo dei valori e il conto economico è il mondo dei prezzi. Il conto patrimoniale è il mondo dei valori nei quali vedi la struttura, la storia, l'origine, il presente e il futuro di una società, e della società anche la sua missione industriale e morale. Se tutto il capitalismo vira sul conto economico e diventa non permanente nella lunga durata, come il conto patrimoniale, ma istantaneo. non eonta più la durata della società, ma l'esercizio sociale e questo è diviso in semestri, trimestri. Se il capitalismo prende la forma istantanea e sciortista del conto economico, l'unico nel quale tu vedi il funzionamento della società - c'è una dottrina che si presenta nobilmente, ha un nome inglese shadow value, ma in concreto è un capitalismo take away: estrai dal conto patrimoniale, saccheggi i valori e li porti fuori. Questo è ciò che è successo nel corpo dei sistema capitalista.
Ed è su questo che deve, può, cominciare una riflessione sul rapporto tra l'etica e l'economia, un'economia che ha perso il contatto con la realtà e ha perso la sua originaria dimensione etica. Ha tolto dall'ideario del capitalismo non la compassione ma anche la funzione sociale. Ed è su questo che, credo, si deve e si può nella eri- si e proprio per effetto della crisi, avviare un percorso diverso. E' in questi termini che si sta avverando la previsione secondo cui nell'economia il declino della disciplina, di una disciplina basata su un forte ordine etico e religioso, la previsione, l'allentamento della disciplina avrebbe portato le leggi stesse del mercato al collasso, all'implosione e si tratta di uno scritto pubblicato nel 1985, sotto un titolo inglese "Church and economy in dialogue", l'autore dello scritto è il cardinale Ratzinger.
Eminenza reverendissima, rettore magnifico e autorità e cari studenti, possiamo dire che stiamo dentro a una terra incognita, alla fine sicuramente c'è, com'è per tutte le crisi, un cambiamento di prospetti va. Ma nel momento presente stiamo dentro a una situazione caratterizzata da grandi criticità, da grandi complessità critiche. Ho detto in una conferenza che non è un ciclo di recessione ma è una discontinuità. Credo che abbia più senso l'ipotesi di una rottura di continuità, di una crisi che tuttavia porta a una soluzione, ma devi passarci.
Credo che dobbiamo avere ignoranza scientifica, sapere di non'sapere. Credo che dobbiamo diffidare da quelli che non sanno di non sapere, da quelli che, non avendo previsto l'avvio della crisi, ti spiegano come si sviluppa. Dobbiamo avere la modestia di sapere che la crisi ha una complessità che però, come tutte le crisi, ci porta verso una fine. Ed è questo lo spazio sul quale dobbiamo e possiamo riflettere parlando di economia sociale di mercato. Non credo che si avvererà la profezia che la fine del comunismo porterà con sé anche la fine del capitalismo. Credo a qualcosa di meno drammatico, può essere anche che alla fine del comunismo corrisponda la fine del capitalismo. Non è detto, è possibile. Da zero a cento è difficile, ci vorrebbe un economista, ma di solito non ci prendono. Forse credo più fondamentalmente in uno scenario meno drammatico e radicale. Resterà forse il capitalismo in una visione più conservativa, più umanistica, anti autoritaria, anti dogmatica, arti perfettista. Uno scenario in cui si aprirà lo spazio di un'economia sociale di mercato attraverso la legge, con l'introduzione di un ordine, di una disciplina, di valori morali.
Sarà un campo anche quello che sostituirà al paradigma della domanda di beni di consumo, superflui possibilmente a debito, sarà un paradigma morale, civile politico anche quello che organizza la domanda sugli investimenti collettivi fatti per il bene complessivo: non per il presente, ma per il futuro. E.non fatti sul debito ma sul solido di una prospettiva fondativa-. Non sarà più il mercato ma la coscienza individuale e collettiva a giudicare il potere, non viceversa. Un pensiero che ci può ispirare su questa via, è quello vecchio e saggio di Platone: "L'unica moneta buona con cui bisogna cambiare tutte le altre è la phronesis: un'intelligenza che sta in guardia, un'intelligenza che sta in guardia". Soprattutto se guidata da Dio. Grazie.

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F. Felice, Il mercato e i suoi presupposti. Una nuova Bretton Woods per risolvere la crisi finanziaria? (Position Paper n. 4/2008)
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