Un voto liquido in una società liquefatta

 di Gianfranco Morra

 

   La cosa più paradossale delle recenti elezioni è che, in mezzo a forti contrapposizioni e proclamate inconciliabiulità, i candidati non dicevano in fondo cose troppo diverse. Abbiamo avuto elezioni con scarsa dialettica politica: tutti promettevano la diminuzione delle tasse e l’aumento di retribuzioni e pensioni, senza indicare come far quadrare il circolo. Le cose più importanti, in fondo, nessuno le ha dette, perché sono le più sgradevoli: all’attacco delle economie asiatiche e alla recessione dell’occidente l’Italia non è stata sinora capace di rispondere, in quanto avrebbe bisogno di riscoprire lo stile etico, produttivo e solidaristico, degli anni Cinquanta. Più che di riforme strutturali, ha bisogno di recuperare una morale pubblica, senza il quale nessuna riforma funziona. Mentre invece, questa morale, è stata sinora assai affogata nell’individualismo delle masse, nelle archeologie sindacali, nell’inconcludenza dei politici.

   “Sacrifici”: ecco la parola che in campagna elettorale nessun  tycoon poteva usare. Perché mai è accaduto? Per capirlo occorre guardare da lontano e assumere quella consapevolezza che tanti sociologi hanno indicato: che la società del passato era solida, mentre quella attuale è “liquida” (Z. Baumann, Vita liquida, 2006), non è ordinata, ma “flessibile” (R. Sennet, L’uomo flessibile, 2001). Anni addietro usai la dicotomia “forte-debole” (G. Morra, Il quarto uomo, 1996); il mio amico (in senso buono) Gianni Vattimo aveva detto “trasparente” (La società trasparente, 1989). Meglio di tutti Ch. Lasch l’aveva definita “narcisista” (La cultura del narcisismo, 1981).

   In una società del genere, dominata dal consumo di massa e dagli audiovisivi, non solo il ragionamento e il confronto di idee non sono attesi dai cittadini, ma risultano non poco sgradevoli e astratti. L’uomo liquido è un “io minimo”, pauroso di perdere il “particulare” e privo di speranze per il futuro. Guarda dunque alla quotidianità e al concreto: i soldi, la casa, il posto di lavoro (o almeno di stipendio), la libertà di fare quello che vuole, magari con il contributo del Welfare. E’ un misto di individualismo liberal e di statalismo assistenziale. Il criterio della scelta è troppo spesso l’interesse di categoria o la collocazione geografica. Il futuro leader, in queste condizioni, è costretto ad assumere l’abito del  campione sportivo, del piazzista e del mezzobusto televisivo, il suo linguaggio deve stupire e catturare, dato che non importa convincere: un po’ come insegnavano i sofisti. Più che i ragionamenti, valgono le gag, ma solo per pochi minuti, mezz’ora dopo vengono smentite o dimenticate.

    In tale situazione, che è di tutti i paesi occidentali, passati dal liberalismo elitario alla democrazia di massa, sarebbe dovuta prevalere, secondo la previsione di Max Weber, una democrazia plebiscitaria del leader. In effetti la politica, dopo il crollo delle ideologie, si è personalizzata attorno a due o tre candidati, al punto che l’elettorato può scegliere solo loro e non i quasi mille suoi rappresentanti in parlamento (tutti predestinati dalla “casta”). Ma questa personalizzazione viene il più delle volte vissuta dentro superficialità ed impressionismo, prevalenza delle immagini e delle emozioni. Anche perché dovendo pescare da tutte le parti, i due leader finiranno per somigliarsi tanto nel dire, quanto ancor più nel non dire.

   Non è stato sempre così. Nei primi decenni della nostra democrazia l’alternativa era tra idee forti: democrazia-comunismo, iniziativa-solidarietà, occidente-oriente, cristianesimo-ateismo. Il clima della guerra fredda alimentava queste alternative e produceva una certa stabilità nel voto, tanto che la Dc non perse mai il potere per quarant’anni. E la Dc di valori, anche se ne faceva per lo più un uso strumentale, ne aveva non pochi. Magari li tradiva, a un certo punto ha cominciato a pescare a destra per spendere a sinistra, ma il voto era ancora determinato dal riferimento a quelle grandi parole (le “ideologie), che tutti partiti dovevano usare: libertà, eguaglianza, solidarietà, giustizia, benessere. Poi, insieme col muro di Berlino, tanto le ideologie, quanto i partiti ideologici sono caduti.

   Oggi le competizioni elettorali non hanno più partiti forti (liberali, comunisti, democristiani, fascisti, socialisti), ma solo delle coalizioni liquide che cercano di tenersi lontane dalle ideologie, evitate anche nelle denominazioni, volutamente generiche e deboli (Libertà, Democratico, Arcobaleno, Centro). Ecco perché  Veltroni non ha avuto difficoltà a fare un partito con i postcattolici ed a ospitare i radicali; e nella casa di Berlusconi convivono il partito della difesa della nazione e  quello della secessione. Non poteva che essere così: in una politica liquida, ciò che più conta sono i flussi dei voti e per raccogliere i “liquidi” non ci vogliono partiti, ma contenitori, tenuti in mano da un esibito leader “carismatico”. Gli elettori non hanno più una identità definita, né una ideologia di appartenenza, hanno bisogno di avere qualcosa di nuovo: ecco perché, negli ultimi quindici anni, non solo i vecchi partiti hanno messo in cantina i nomi tradizionali e ne hanno assunti altri disideologizzati, ma hanno anche cambiato due o tre volte il nuovo nome. Anche i partiti sono liquidi.    

   La prova del nove è venuta dal disastro di Giuliano Ferrara,  esponente autentico e schietto di quella “morale della convizione” (“vegna che vegna”), che Max Weber aveva mostrato disastrosa se non unita alla “morale della responsabilità” (“se faccio x,  quali ne saranno le conseguenze?”). La sua proposta di mettere in moratoria la legge sull’aborto era certo priva di fondamenti giuridici, ma partiva da un principio sacrosanto della morale: la difesa della vita. Ma un elettorato liquido guarda al concreto e non è scosso in alcun modo da questi appelli ai valori supremi. La diminuzione della tasse conta più della vita,  la strage degli innocenti interessa meno del prezzo della benzina. Ferrara è stato il Savonarola di turno, un “profeta disarmato”. Non l’hanno bruciato solo perché ci sarebbe voluta troppo legna.

   E’ facile e anche giusto dire che la politica opera in una data situazione, che ne costituisce lo sfondo. Una situazione socioculturale che dipende da motivi metapolitici e di cui i politici debbono tener conto. Cosa vera, quando si pensi che l’attuale crisi della morale è stata prodotta da una rivoluzione, quella del Sessantotto, che non fu politica, ma antropologica. Eppure anche la politica può fare qualcosa. Può gettare le basi di un lungo recupero, può fornire gli strumenti per rialzare l’Italia non solo economicamente, ma anche e prima ancora moralmente.

   Per fortuna Veltroni è stato sconfitto. E’ stato capace di staccarsi dal comunismo, al punto che lo ha fatto sparire, come il figlio freudiano che, per divenire adulto, ha dovuto uccidere il padre. Ma non si è staccato dal relativismo buonista che, finiti i bollenti spiriti della contestazione, è divenuto prevalente nei riflusso del “pensiero debole”. In lui il radicalismo piccolo-borghese trionfa sul collettivismo all’interno di una ideologia e di una politica “liquide”. Come è ovvio, dato che la sfacelo etico, la distruzione dell’unica morale che gli italiani abbiano avuto, quella insegnata da Santa Madre Chiesa (una morale che la classe borghese aveva laicizzato, ma non rifiutato), è stata compiuta dalla sinistra, nelle sue varie denominazioni.

   Oggi ha vinto il centrodestra ed è lecito sperare che qualcosa comincerà a muoversi. Ciò di cui abbiamo bisogno non è di un radicalismo di massa e neppure di una populismo tecnocratico. Senza liberali, democristiani, fascisti, comunisti, socialisti, la politica potrà essere più spedita ed efficiente. Ma sarebbe un errore annegare in un liquido incolore quei messaggi di libertà e solidarietà che, nonostante strumentalizzazione e tradimenti, per più di un secolo hanno fatto la storia d’Italia.

 


 

 


                                                              

vai indietro