L’aborto selettivo di Milano. L’inganevole retorica dell’errore fatale

di Paolo Fornari

 

Il caso dell’aborto selettivo praticato qualche mese fa al San Paolo a  Milano, e venuto alla ribalta mediatica in questi giorni, fornisce l’ennesima prova della profonda confusione con cui la società odierna interpreta le vicende che la riguardano – il che significa, con cui interpreta se stessa. Il dibattito sviluppatosi si è immediatamente configurato come una contrapposizione fra i paladini della legge 194 e quanti ne denunciano l’ambiguità. Che questo testo normativo – e in particolare l’uso dell’attributo “terapeutico” per qualificare interventi meramente selettivi – sia piuttosto ambiguo, credo sia abbastanza evidente, ed è più volte stato rilevato. Lo stesso Silvio Viale, promotore della RU486, afferma che tutti gli aborti terapeutici sono selettivi. Per non ripetere argomentazioni già esaurientemente esplicitate, vorrei pertanto concentrarmi su un altro aspetto peculiare del dibattito in corso, quello del linguaggio con cui la questione è affrontata. Se, infatti, il linguaggio è l’esplicitazione della comprensione che una società ha di sé e della realtà, le categorie con cui le questioni etiche vengono affrontate danno in qualche modo la misura della stato di salute morale e intellettuale della società. Ad una siffatta analisi emerge un dato interessante. Come nei migliori gialli, o nella metafisica heideggeriana, l’elemento più importante è ciò che manca. E in questo caso, a non essere menzionato, è l’embrione superstite.  

La retorica della disgrazia, della tragica fatalità, del male involontario, sembra aver dimenticato che gli embrioni in questione erano due. La ginecologa che ha somministrato l’intervento parla di “fallimento”, il ministro Turco in un’intervista al Corriere della Sera parla di errore gravissimo, di un “esito tragico”, di due genitori posti di fronte a una scelta difficile, che hanno corso un grosso rischio e, purtroppo, “è andata come è andata”. Sembra cioè che sia l’esito infausto dell’intervento – l’aver eliminato il feto sano – a qualificarlo come tragico. Il che presuppone implicitamente che se non si fosse sbagliato il bersaglio, nulla avrebbe urtato la pubblica sensibilità. Se pertanto un destino avverso non avesse voluto che i due feti – come sembra essere avvenuto – si scambiassero di posto, i media non avrebbero versato tante lacrime, e nessuna coscienza sarebbe rimasta scossa. Si sarebbe trattato di un intervento “terapeutico” e dunque – se non buono – per lo meno indifferente.  

Naturalmente, i più attenti paladini dell’aborto terapeutico, a cominciare dal ministro, non negano che la scelta di sottoporsi ad un aborto selettivo è una scelta difficile e sempre sofferta, ma si ha la sensazione che tali precisazioni, nobile concessione alla sensibilità cattolica, rimangano soffocate dalla predominante retorica dell’errore fatale, che riduce la tragedia ad un banale errore di bersaglio. Nella stessa trappola retorica cadrebbe chi denunciasse l’aborto terapeutico a partire dalla mera considerazione della possibilità the si ripetano errori simili. L’argomento non è privo di rilevanza, ma non centra il problema.

Un approccio razionale e umano – non necessariamente cattolico – alla questione consiste invece nel chiedersi cosa rendesse i due embrioni talmente diversi da configurare l’eliminazione di uno come indifferente alla pubblica sensibilità,  e l’eliminazione dell’altro come un tragico errore. La sola differenza consisteva in una malformazione dell’embrione che si intendeva eliminare, e che di fatto giustificava la somministrazione di un intervento “terapeutico”. Per il resto, si trattava di due esseri collocati sul medesimo livello biologico, nonché ontologico (in una buona ontologia una malformazione è accidentale rispetto alla determinazione che viene dall’essenza). A questo punto si tratta di scegliere: o entrambi gli embrioni erano esseri umani,  oppure nessuno dei due lo era. In quest’ultima, deprecabile, ipotesi, la vicenda non avrebbe meritato la mobilitazione della sensibilità pubblica. Ma nessuno, ringraziando il Cielo, si sogna di affermarlo.

Se invece si trattava di due esseri umani, la tragedia deve essere ricondotta nelle sue dimensioni reali. Ed è la tragedia di una persona cui viene negata la vita perché inadatto. In questo caso l’esito di un aborto deve necessariamente e in ogni caso essere tragico. Un aborto è un aborto, sia che il feto soppresso sia malformato, sia che goda di ottima salute. È la prassi a costituire un problema, non i suoi effetti indesiderati.

Anche quando il feto rappresentasse una minaccia per la salute psico-fisica della madre, l’intervento rimarrebbe comunque l’omicidio di un essere umano, magari per legittima difesa, ma pur sempre un omicidio. Certo, la salute della madre deve essere tutelata, ma un aborto rimane una profonda ferita che non può essere occultata neanche dall’impersonale e tranquillizzante categoria di “terapia”. Non vedere questa problematica significa perdere il senso della realtà, seria malattia, questa sì, ma dell’ intelletto.

 

 


                                                              

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