Bersagli illegittimi

di Alia K. Nardini

 

La Conferenza per la Giustizia e lo Stato di diritto in Afghanistan che si svolge in questi giorni a Roma ha aperto ieri con un intervento del Presidente del Consiglio Romano Prodi, approvato dal segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon: la fondamentale priorità di ridurre le vittime civili delle azioni militari in Afghanistan, pur restando la necessità di garantire la sicurezza della regione.

A tale proposito, il presidente afghano Hamid Karzai è intervenuto rimarcando come la nozione di “giustizia”, secondo la popolazione del suo paese, viene sempre più a coincidere con la richiesta di “rispetto per la vita” che i bombardamenti su obiettivi misti (ovvero che mirano ai combattenti armati ma possono risultare anche nell’uccisione indiretta di civili) sembrano porre in secondo piano.

Al di là della volontà indiscutibile di evitare di colpire direttamente quelli che le teorie di guerra giusta definiscono non combattenti (la popolazione civile con anziani, donne e bambini; ma anche i medici, i giornalisti, i malati, i prigionieri di guerra), si pone un interrogativo tuttora affrontato solo parzialmente dalla comunità internazionale: come gestire gli attacchi indiretti alla popolazione civile, ovvero come rispettare quel “diritto alla vita” della popolazione di cui parla Karzai, se il suo ferimento o la sua morte non è intenzionale, ma comunque si rivela inevitabile nel corso delle ostilità. Più generalmente, è necessario riflettere su quelle situazioni in cui il pericolo si infiltra e si nasconde nel tessuto sociale di una nazione, facendosi scudo con individui innocenti per evitare di essere sradicato.

Il monito dei filosofi di guerra giusta, così come sovente accade per le loro dottrine, può inizialmente apparire severo e distaccato: afferma che in guerra l’uccisione accidentale dei civili nel corso delle ostilità non è condannabile, sebbene sia proibito colpire la popolazione in maniera diretta e volontaria. Gli ordinamenti internazionali in materia di guerra hanno da sempre confermato questo principio, ribadendone la validità nella Convenzione dell’Aia, nelle varie formulazioni della Convenzione di Ginevra e da ultimo nello Statuto del Tribunale Penale Internazionale Permanente in vigore dal 2002. Nel concreto, si stabilisce dunque come il bombardamento di un’abitazione civile in cui si sospetta si nascondano terroristi non è mai giustificabile, ma si può colpire un campo di addestramento delle loro milizie. Se in quest’ultimo sono presenti accidentalmente donne o bambini innocenti, andrebbero adottate precauzioni per evitare di arrecare loro danno, sebbene si tratti di “precauzioni” appunto, non di norme stringenti di cui si può esigere il rispetto: l’azione in sé, la morte o il ferimento non previsto dei non combattenti, resta comunque non sanzionabile.

All’interno del dibattito per una strategia condivisa per uno Stato di diritto, la pace e la sicurezza in Afghanistan, il richiamo fondamentale della just war theory in materia di guerra si dimostra quanto mai appropriato: l’intenzionalità dell’azione conta sempre. La filosofa britannica Elisabeth Anscombe ha affermato che se l’obiettivo dell’offensiva militare include un numero consistente di bersagli civili, l’attacco è illegittimo, un omicidio per cui i responsabili devono essere puniti: è la mancanza di scrupolo nel considerare alternative che lo rende tale. Allo stesso modo, Michael Walzer -forse il più grande filosofo politico di guerra giusta vivente- sostiene che se un’azione militare implica necessariamente la morte o il ferimento di gran parte della popolazione civile, è doveroso intraprendere azioni alternative per raggiungere lo stesso risultato. Possono esservi rischi (e costi) più alti nell’adottare, ad esempio, un’azione di guerriglia di terra invece che bombardare semplicemente dall’alto una postazione di difesa nemica. Tuttavia, afferma categoricamente Walzer, i soldati non possono mai accrescere la loro sicurezza a spese di donne e uomini innocenti, siano essi appartenenti al proprio paese o al fronte nemico: l’essere soldato implica dei rischi, ed in quanto appartenenti ad un corpo militare che si impegna per la pace e la sicurezza nel mondo, questi sono esattamente i rischi che l’Occidente deve essere disposto a correre.

 

 


                                                              

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