Filosofia

 

D. Antiseri, Filosofia contemporanea, riconquista della contingenza e attualità del pensiero francescano

E. Donadon, Schweitzer e cassirer: memoria e speranza

G. Brescia, Benedetto Croce e Luigi Sturzo

R. Cubeddu, Legge naturale o diritti naturali? Alcune questioni concernenti la filosofia politica liberale

 

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Filosofia contemporanea, riconquista della contingenza e attualità del pensiero francescano

di D. Antiseri

1. «Assoluti terrestri»: altrettante negazioni dell’«Assoluto trascendente»

Il secolo XX, il secolo appena trascorso, si è aperto con tre imponenti movimenti filosofici – positivismo, idealismo e marxismo – che, assolutizzando o divinizzando l’uomo, pretesero, con motivazioni differenti, di cancellare ogni spazio della fede.

Per i materialisti la trascendenza è illusione; per i positivisti Dio è un’ipotesi inutile; per gli idealisti le verità di fede non sono la rivelazione di Dio all’uomo, sono rappresentazioni mitiche di cui va scoperto il nocciolo razionale. Con Marx le cose vanno ben oltre. Per Marx, infatti, la fede in Dio non è semplicemente un’ipotesi inutile o un’illusione o un mito che mentre sembra parlare di Dio, in realtà parla di cose del tutto «immanenti». Per Marx la fede in Dio è dannosa per l’uomo, una malattia le cui cause sono da combattere ed estirpare. «La lotta contro la religione – si legge in Per la critica della filosofia del diritto di Hegel – è la lotta contro quel mondo, di cui la religione è la quintessenza spirituale […]. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo spietato […]. Essa è l’oppio del popolo».

Dannosa la fede non è soltanto per Marx e, sostanzialmente, per l’intero movimento marxista del nostro secolo. La fede è dannosa pure per Freud, il quale vede nella religione «una nevrosi ossessiva universale». In breve, per i marxisti e per l’ateismo psicoanalitico Dio è diventato importuno. Cos“ come, in linea generale, lo è per l’esi-stenzialismo ateo, per esempio di Sartre, Merleau-Ponty o Camus. L’uomo, ha scritto Sartre, «è una passione inutile». Dio non esiste e «noi non abbiamo né dietro a noi, né dinanzi a noi, in un dominio luminoso di valori, delle giustificazioni o delle scuse. Siamo soli, senza scuse». E, dopo gli esistenzialisti, i loro avversari: gli strutturalisti. Costoro in nome di una «ragione nascosta» hanno preteso di condannare la «ragione cosciente», ed insieme a questa, ogni traccia di trascendenza. Claude Lévi-Strauss: «All’inizio del mondo l’uomo non c’era; non ci sarà neanche alla fine». E alla domanda «che cosa si può sperare?», Jacques Lacan ha risposto: «Non si può sperare assolutamente niente. Non vi è alcuna specie di speranza». E non avrebbero nessun senso letterale, secondo i neopositivisti del Circolo di Vienna, le proposizioni che parlano di «Dio», dell’«anima immortale», di «trascendenza», o di «Provvidenza». Questi concetti e gli asserti che li inglobano sarebbero dei puri «non-sensi», perché concetti e asserzioni non verificabili empiricamente, vale a dire non traducibili o riducibili al linguaggio «cosale» della fisica. «Né Iddio né alcun diavolo – dirà Carnap – potranno mai darci una metafisica». E per Alfred J. Ayer, gli asserti di fede, insieme alle teorie metafisiche «sono soltanto materiale per lo psicoanalista».

Queste ora richiamate sono prospettive filosofiche che hanno preteso di proibire lo spazio della fede. La fede nel Dio di Gesù Cristo risulta vietata da «assoluti terrestri» che si sono presentati come altrettante negazioni dell’«Assoluto trascendente». Difatti – e al fine di essere ancora più chiari – se il positivismo fosse vero, la fede sarebbe allora null’altro che illusione, residuo di mentalità sorpassate; se il materialismo dialettico fosse nel giusto, la fede sarebbe allora solo alienazione; se il neopositivismo fosse valido, allora la fede sarebbe unicamente un cumulo di non-sensi; e cos“ via. Assoluti terrestri proposti e accettati e sempre propagati come indubitabili – scientismo materialistico, idealismo (in gran parte), positivismo, neopositivismo, movimento psicoanalitico (in gran parte), marxismo, esistenzialismo (in buona parte), strutturalismo – queste prospettive filosofiche hanno costituito nel secolo che abbiamo alle spalle la truppa d’assalto contro le verità cristiane.

2. La riconquista della «contingenza»

La fede è grazia a parte Dei e opzione a parte hominis. Questa opzione a parte hominis sarebbe tuttavia impossibile in un universo in cui si dimostrasse che l’uomo è solo corpo; in un universo in cui quello scientifico fosse l’unico linguaggio dotato di senso; in un mondo in cui il senso della vita del singolo e dell’umanità nella sua interezza risultasse determinato da ineluttabili leggi di sviluppo della storia; in cui tutta la realtà si risolvesse nel solo universo fisico. Quindi, perché la fede sia possibile è necessario che prima vengano distrutti gli «assoluti terrestri», certezze presunte indubitabili, totalizzanti e negatrici della trascendenza. Un sapere assoluto è un uomo assoluto; e l’uomo assoluto fa sprezzantemente a meno del Redentore.

Ebbene, se il secolo scorso si è aperto, come si è detto all’inizio, con imponenti movimenti filosofici, accomunati dall’idea che «homo homini deus est», sempre questo secolo si è chiuso con la lucida consapevolezza di una riconquistata contingenza, con una luce chiara sui limiti della ragione umana. Si è trattato di concezioni filosofiche che hanno tenuto incatenate le menti di tanti uomini e donne, e che avevano sequestrato intelligenze proibendo ad esse qualsiasi apertura all’esperienza religiosa. Ai nostri giorni non è più possibile nascondere l’inventario dei fallimenti di filosofie come il positivismo, l’idealismo, il marxismo o il neopositivismo – fallimenti dovuti ad una ybris generata dall’abuso sistematico della ragione. Al tramonto del secolo abbiamo viste sepolte le «grandi illusioni» e le orgogliose presunzioni di filosofi che volevano essere i becchini di Dio. Ma non si è affatto avuta la morte di Dio. Sono piuttosto scomparse le illusioni filosofiche. Non è scomparsa la «grande filosofia». E’ scomparsa la presunzione fatale stando alla quale l’uomo sarebbe stato e sarebbe capace di autosalvezza, di salvare se stesso dalla voragine dell’assurdo.

La filosofia contemporanea, nelle sue punte più avanzate e scaltrite, ha esattamente devastato le pretese di un uomo che ha tentato di erigere vitelli d’oro – che ha negato Dio e ha popolato la terra di mostri, del Gulag e di Lager. In quest’opera di demolizione degli «assoluti terrestri» particolarmente efficaci si sono mostrati, a mio avviso, gli strumenti concettuali forgiati nell’arsenale epistemologico-ermeneutico. Cos“, per esempio, è stato Karl Popper ad assestare il colpo decisivo allo scientismo: le teorie scientifiche sono e restano smentibili; i discorsi non scientifici, quali le teorie filosofiche, non sono affatto insensati (come pretendevano i neopositivisti); il cervello non spiega la mente; il determinismo è falso; falso è il conseguente fatalismo; e il futuro resta aperto alle nostre scelte e al nostro impegno di cittadini liberi e responsabili in una società aperta. Hans Georg Gadamer ci ha fatto capire che noi leggiamo il mondo con un linguaggio fatto di concetti non assoluti, di a-priori temporalizzati, per cui non paiono più possibili quei grandi racconti che pretendevano esibire fundamenta inconcussa. Contro lo pseudo-razionalismo di quanti, come i marxisti, si sono creduti in possesso di leggi ineluttabili della storia, si è battuto non solo Popper, ma anche Friedrich A. von Hayek – premio Nobel per l’economia nel 1974 – il quale, insistendo sulle inevitabili conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali, è giunto a concludere, in una prospettiva anticostruttivistica, che «l’uomo non è e non sarà mai il padrone del proprio destino». E Kelsen, Popper ed Hayek – e, certamente, non solo loro – hanno messo a nudo la totale inconsistenza delle argomentazioni a sostegno dello Stato totalitario, offrendo al contempo ragioni logiche, epistemologiche ed economiche della «società aperta» (Popper) o «Stato di diritto» (Kelsen) o «Grande società» (Hayek).

3. Domanda metafisica e risposta religiosa

All’interno di siffatto orizzonte – dove con evidenza vengono scolpiti i tratti della contingenza umana – riemerge più irreprimibile che mai la domanda metafisica: perché l’essere piuttosto che il nulla? Domanda metafisica che trova il suo nervo scoperto nella sofferenza, e in special modo nella sofferenza innocente. Perché la sofferenza? Ma poi, e soprattutto, perché la sofferenza di tanti innocenti? Tale interrogativo – annota con profondità Norberto Bobbio – «è una richiesta di senso, che rimane senza risposta o, meglio, che rinvia ad una risposta che mi pare difficile chiamare ancora filosofica».

Non è la scienza a dirci quello che dobbiamo fare. Non è la scienza a insegnarci in che cosa possiamo sperare. E’ per principio che la scienza non risponde alle domande per noi le più importanti. Il porro unum necessarium esula dalla ragione scientifica. e non è possesso della ragione filosofica: la filosofia non salva. La filosofia può portare a perdizione ma non salva. Ma «proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della nostra mente, l’uomo – è ancora Norberto Bobbio a parlare – rimane un essere religioso, nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio, che caratterizzano l’età moderna e ancor più quella contemporanea».

«Credere in Dio – ha scritto Ludwig Wittgenstein – vuol dire vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto». Il secolo XX si era aperto con le filosofie certe che i fatti del mondo e gli uomini siano tutto; e si è chiuso consapevole della presunzione fatale di quanti intesero proibire e cancellare l’esperienza religiosa, privando l’umanità della ricchezza più grande. È cos“ che è stato ricostruito lo spazio della fede, dove è possibile l’opzione religiosa che sola ci consente di sperare che il carnefice non abbia l’ultima parola sulla vittima innocente.

La distruzione degli assoluti terrestri non è e non va in nessun modo scambiata con la vittoria del nulla, del nulla di senso, vale a dire del nichilismo. La consapevolezza della contingenza umana non è naufragio nell’assurdo. È la consapevolezza che la salvezza dall’assurdo non è una costruzione umana; e che quel senso che non può essere costruito può venir invocato. Ma – e qui torniamo al punto di maggior rilievo – l’invocazione è possibile solo nel mondo della contingenza. Per questo non si sarà mai grati abbastanza a quei pensatori i quali hanno insegnato che l’uomo non è il padrone del senso, che è un mendicante di senso. E che ci han fatto capire che «ormai solo un Dio ci può salvare». La mancanza di senso si risolve nell’angoscia, in quella «malattia mortale» che per Kierkegaard era la disperazione. E «la coscienza angosciata – affermava Kierkegaard – capisce il Cristianesimo, come un animale affamato; se gli metti davanti un pezzo di pane o di pietra capisce che l’uno è da mangiare e l’altra no; a questo modo la conoscenza angosciata capisce il Cristianesimo».

Quaestio magna mihi cactus sum, terra difficultatis – confessava Agostino. E Heidegger e Marcel hanno puntato l’attenzione sul fatto che quella metafisica è una questione che coinvolge il domandante stesso. Non è un «problema», ha piuttosto la natura di un’ «invocazione». E’ una «interrogatio» nella forma; solo «rogatio» nella sostanza. Per questo essa non ammette soluzioni presunte razionali univoche, assolute ed incontrovertibili. Ammette soltanto scelte di fede. La domanda metafisica, se vuole una risposta assoluta, avrà soltanto una risposta di fede, una risposta religiosa. E ciò vuol dire, inequivocabilmente, che anche la domanda era religiosa, era cioè invocazione. Invocazione di salvezza, invocazione appunto della salvezza dall’assurdo, invocazione di quel senso assoluto della vita che da soli non riusciamo a costruire. E chi sceglie l’assurdo, cioè l’ateo, non è più scientifico del credente. In un orizzonte del genere è del tutto ragionevole cercare una risposta religiosa ad una invocazione religiosa. E’ questo quanto ha fatto Francesco d’Assisi. Egli spalancò il suo cuore e la sua mente all’invito di Cristo. Ne I racconti dei Chassidim Martin Buber parla del Rabbi Mendel di Kozk, il quale «stup“ alcuni uomini dotti che erano suoi ospiti con questa domanda: “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui: “Che dite? Se tutto il mondo è pieno della sua gloria?”. Ma egli rispose da sé alla propria domanda: “Dio abita dove lo si fa entrare”». «Aprite le porte a Cristo»: fu questo il grido di Papa Giovanni Paolo II: un tratto essenziale della spiritualità francescana – del pensiero e dell’azione del francescanesimo.

Dono a parte Dei, scelta a parte hominis – la fede o, meglio, la scelta di fede viene talvolta considerata una specie di rifugio opportunistico – un rifugio dove Dio altro non sarebbe che un Dio-tappabuchi. La paura delle parole, però, è la più meschina delle paure, per cui se il buco da tappare è il senso della vita di ogni uomo e dell’intero universo, il buco da tappare è un autentico baratro – il baratro del non senso – che soltanto Dio può colmare. E a quanti qui replicano con l’accusa di irrazionalismo si può richiamare la scommessa di Pascal, della quale è rinvenibile una versione “volgarizzata” in una pagina di Lodovico Antonio Muratori: «Mentre Arrigo IV, Re di Francia, si trovava alla caccia, passò per quelle parti il Padre Gioiosa Cappuccino, già Duca e General d’Armata al Secolo; e udito, ch’ivi era il Re, andò a inchinarlo. Arrigo in vedere il buon Religioso tutto sudato, e pien di polvere e di stanchezza: Padre Gioiosa, gli disse ridendo, e se non fosse poi vero quanto si dice dell’altra vita? Francamente il Cappuccino rispose: Sarà ben peggio per la V.M. quando sia vero». Dunque , chi è più “ragionevole” Arrigo IV o Padre Gioiosa? E a quei cattolici, solo loro “razionalisti” e sempre pronti ad accusare gli altri di fideismo, vorrei chiedere in base a quale metafisica accettano un Dio che muore in croce o credono nella presenza di Cristo nell’eucarestia. Come dice Luigi Giussani, alla fin fine l’opzione è decisiva.

4. Guglielmo d’Occam e la difesa dell’autonomia, libertà e intraprendenza della persona umana

«La maggior parte delle grandi emancipazioni dello spirito come dei progressi nel riconoscimento della dignità degli uomini che hanno segnato la storia della civiltà occidentale si appoggiano sul postulato individualista implicito nel nominalismo di Occam (1280-1349). Dalla semplice verità enunciata da questi – solo l’essere singolo è ontologicamente reale e nessuna entità collettiva (priva di esistenza in quanto tale) ha il diritto di subordinarlo – ne segue che ciascun individuo si erge come essere autonomo dotato di un reale potere su se stesso». Questo ha scritto Alain Laurent. Una annotazione da cui traspare l’enorme rilevanza del pensiero francescano a difesa della autonomia e responsabilità di ogni uomo e di ogni donna nei confronti delle nefaste, onnivore e liberticide reificazioni dei concetti collettivi, di quelli che Max Weber chiamava Kollektiv-begriffe, quali: lo “Stato”, la “classe”, il “partito”, e cos“ via. La verità è, insomma, che l’individualismo (si pensi alla Scuola dei moralisti scozzesi, alla Scuola austriaca di economia, a Max Weber, Karl Popper, Raymond Boudon) non si oppone ad altruismo, bens“ a collettivismo. E, come ha sottolineato Josè Ortega y Gasset, «è stato proprio l’individualismo ad arricchire il mondo, ed stata questa ricchezza che ha cos“ fondamentalmente moltiplicato la pianta umana». Da parte sua, un dotto padre francescano, Orlando Todisco, in un volume di qualche anno fa (Duns Scoto e Guglielmo d’Occam. Dall’ontologia alla filosofia del linguaggio, 1989) faceva presente che la lotta di Occam contro il collettivismo e a favore dell’individualismo è stata una lotta «per il recupero della libertà degli uomini, la difesa della loro intraprendenza, il sostegno della loro autonomia».

L’individualismo, quale difesa della persona umana contro le mai sopite e sempre risorgenti tentazioni liberticide delle varie forme di collettivismo, costituisce un punto di forza della tradizione di pensiero francescano che si intesse con le ragioni del volontarismo. Posizioni filosofiche che fanno dei maestri francescani degli autentici classici del pensiero filosofico. E, come si sa, un classico è un contemporaneo del futuro.

5. Le ragioni del volontarismo

La difesa che Scoto (1266-1308) fa della libertà lo conduce ad una critica radicale del necessitarismo naturalistico dei filosofi greco-arabi. Dio è libero e creando ha voluto gli enti particolari nella loro individualità – e non le loro nature o essenze. Contingente l’origine, contingente è il mondo stesso e tutto ciò che è in esso, incluse le leggi morali. E, in una situazione del genere, quali sono i diritti necessari ed assoluti? Sono soltanto quelli contenuti nella prima tavola mosaica, e cioè l’unicità di Dio e l’obbligo di adorare lui solo. Certo, l’intelletto percepisce la verità dei precetti della seconda tavola. Ma l’obbligatorietà di questi scaturisce solo dalla volontà legiferante di Dio nell’assenza della quale, si avrebbe un’etica razionale, la cui trasgressione sarebbe irrazionale, ma non peccaminosa. Il male è peccato, non errore – come riteneva Socrate. Dall’Ordinatio: «Come Dio poteva agire diversamente, cos“ poteva stabilire altre leggi che, se fossero state promulgate, sarebbero rette, perché nessuna legge è tale se non in quanto stabilita dalla volontà accettante di Dio» [«Ideo sicut potest aliter agere, ita potest aliam legem rectam statuere, quae si statuta a Deo, recta esset, quia nulla lex nisi quatenus a voluntate divina acceptante est statuta»]. In breve, è bene ciò che Dio comanda. Tanto che – scrive Scoto sempre nell’Ordinatio - «parecchie cose che sono proibite come illecite potrebbero diventare lecite se il legislatore le comandasse o almeno le permettesse, per esempio il furto, l’omicidio, l’adulterio e altre cose del genere, le quali non implicano una malizia inconciliabile con il fine ultimo, allo stesso modo che i loro apporti non includono una bontà che necessariamente conduca al fine ultimo».

Il volontarismo di Scoto è diretta conseguenza della sua difesa della trascendenza di Dio infinito – una difesa senza compromessi che entra in collisione con quell’”iper-razionalismo” dove prevalgono istanze più pagane che cristiane. In realtà, quel che si è detto della volontà di Dio, va pur detto, con le dovute proporzioni, della volontà dell’uomo. E Scoto sottolinea a più riprese il ruolo-guida della volontà che agisce sull’intelletto orientandolo verso una certa direzione e distinguendolo dall’altra. La luce dell’intelletto è necessaria, non però determinante. Per guarire da un malanno è necessario conoscere farmaci adeguati, ma l’atto di assumere il farmaco non è necessario, ma libero, in quanto alla vita uno può preferire la morte.

Pretese giusnaturalistiche avanzate con la forza della pura ragione appaiono, ai nostri giorni, sempre meno convincenti, se non altro a motivo del fatto che da proposizioni descrittive non è possibile passare logicamente ad asserti prescrittivi, per cui da tutta la scienza disponibile non è possibile estrarre un grammo di morale. La scienza descrive, spiega e prevede, sempre tramite teorie falsificabili, ma non stabilisce valori. La scienza sa, l’etica valuta. Non intendo annoiarvi con richiami alla lunga, travagliata e certamente ricca storia della disputa tra razionalisti e volontaristi – ma una domanda mi sta a cuore porla: un cristiano ciò che è bene e ciò che è male lo sa dal Vangelo o dalla ragione? – da quale ragione? dalla ragione di chi? E se il bene ed il male assoluto lo stabilisse la ragione, non sarebbero nel giusto coloro che affermano che allora “mestier non era parturir Maria”?

L’antica disputa tra razionalisti e volontaristi si configura ai nostri giorni – all’interno dell’analisi linguistica ed epistemologica – come uno scontro tra cognitivisti e non-cognitivisti. Uno scontro che l’argomentazione logica fa pendere dalla parte del volontarismo. Certo, può essere deludente rendersi conto del fatto che non può esservi una base razionale valida per tutti delle nostre convinzioni etiche e politiche di fondo. Ma, d’altra parte, non è frutto di presunzione fatale pensare all’uomo come al padrone assoluto di un senso assoluto e costruttore-padrone del bene assoluto? Insomma: Dio vuole il bene perché il bene è bene ovvero è bene ciò che Dio comanda? Chi ha una migliore conoscenza dell’uomo, della natura umana, Dio o l’uomo? L’odio è tanto naturale quanto l’amore. E nostro Signore rende imperativo l’amore. Quanto è naturale porgere l’altra guancia? Quanto è naturale baciare il lebbroso? Il messaggio di Francesco è un teorema tratto dalla speculazione di qualche filosofo o la testimonianza di chi ha abbracciato l’imperativo evangelico dell’amore?

Eritis sicut dei cognoscentes bonum et malum” – l’antica tentazione ha accarezzato i nostri istinti più bassi: quelli di sopraffazione dell’uomo sull’uomo; l’orgoglio luciferino dell’uomo che si è creduto un dio, che ha preteso di sostituirsi a Dio, di cancellare Dio – e insieme popolando la Terra di idoli assetati di sangue. Anche da qui, l’estrema attualità del pensiero francescano: Francesco non intese fare dei “professori”, volle dei testimoni: testimoni dell’amore comandatoci da Gesù Cristo.

6. Cosa possono insegnarci ancora Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone

Qui tuttavia non va affatto sottovalutato il contributo del francescanesimo alla genesi della filosofia empirica della natura. Cos“, tanto per esemplificare, è all’interno della sua metafisica della luce che Roberto Grossatesta (1175-1235) incastona e sistema conoscenze di natura puramente scientifica ed empirica quali quelle relative alla proprietà degli specchi e alla natura delle lenti. Ma, a parte ciò, notevole è il fatto che Grossatesta abbia espresso con estrema lucidità un principio che in seguito sarà a fondamento del pensiero di Galileo e della fisica moderna: «L’utilità dello studio delle linee, degli angoli, delle figure è somma, perché senza di esse non si può conoscere niente della filosofia naturale. Esse valgono in modo assoluto in tutto l’universo e nelle parti di esso». E’ stato Nicola Abbagnano ad affermare che, sebbene frammiste ad elementi teologici, mistici e metafisici, le nuove ricerche «denunziano un nuovo corso dell’indagine filosofica e un rinnovamento dei suoi orizzonti». E, in ogni caso, ha scritto Ch. Singer, «fu il francescano Roberto Grossatesta a determinare l’indirizzo fondamentale che assunsero gli studi fisici nei secoli XIII e XIV». Ma se il Grossatesta può venir considerato quale l’iniziatore del naturalismo di Oxford, il rappresentante principale ne è Ruggero Bacone (1214 c. 1292 c.), il quale, allievo di Grossatesta ad Oxford, nomina tra i suoi predecessori e maestri anche Pietro Peregrino, autore nel 1269, di una Epistola de magnete di cui nel 1600 parlerà Gilbert, il grande studioso del magnetismo. Sebbene, come già per Averroè, Aristotile è per Bacone «l’ultima perfezione dell’uomo», ciò non significa affatto che la ricerca della verità termini con Aristotile, perché la verità, ad avviso di Bacone, è filia temporis e la sua crescita non è priva di ostacoli. Ed esattamente nella prima parte dell’Opus maius Ruggero Bacone sviluppa una interessantissima analisi degli ostacoli che si frappongono al raggiungimento della verità. Si tratta di riflessioni che anticipano e richiamano quelle che un altro Bacone, vale a dire Francesco Bacone, condurrà sugli idola. Ebbene, per Ruggero Bacone, quattro sono gli ostacoli che ci costringono nella caverna della nostra ignoranza: a) l’esempio dell’autorità fragile e ingenua; b) le incrostazioni di una continuata abitudine; c) le idee del volgo sciocco; d) l’occultamento dell’ignoranza attraverso l’ostentazione di una apparente sapienza. La verità è figlia del tempo e la scienza è opera non del Singolo, ma dell’umanità che, appunto con il passar del tempo, elimina via via gli errori commessi in precedenza. E’ cos“ che il sapere progredisce. Due sono i modi tramite i quali noi arriviamo alla conoscenza: «per argomentazione e per esperimento» - ed è per esperienza esterna, quella che facciamo attraverso i sensi, che si perviene alle verità naturali; mentre con l’esperienza interna, che è l’illuminazione divina agostiniana, perveniamo alle verità soprannaturali. Sostenitore, al pari di Grossatesta, della fondamentalità della matematica, studioso di fisica e particolarmente di ottica, Bacone comprese la legge della riflessione e della rifrazione della luce, studiò le lenti ed è a lui che si attribuisce l’invenzione degli occhiali e dei telescopi, intu“, tra altre, cose come il volo, l’impiego degli esplosivi, la circumnavigazione del globo, la propulsione meccanica. Scrive ancora Ch. Singer: «La previsione di una sola di queste scoperte non sarebbe degna di memoria, ma appare significativo il fatto che si ritrovassero cos“ numerose in un'unica mente». E pure per Ruggero Bacone, come sarà per Francesco Bacone, sapere è potere: «le opere della sapienza […] sono come difese da leggi sicure e conducono efficacemente alla meta voluta». E, di nuovo, la via che porta a questa meta è quella dell’esperienza, poiché «senza esperienza nulla si può conoscere in modo sufficiente».

Dunque: con Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone, anche se non soltanto con loro – basti qui ricordare Alberto Magno –, nasce e lentamente si sviluppa un filone matematico e sperimentalistico all’interno della filosofia scolastica. Certo, che il patrimonio scientifico-tecnologico fosse rimasto fino ad allora fuori dalla “filosofia” non significa affatto che le urgenze della vita pratica non avessero aguzzato l’ingegnosità di uomini alle prese con la soluzione di problemi. Sarà sufficiente qui richiamare i tipi di bardature, i mulini ad acqua, il maglio ad acqua, l’orologio meccanico, la filatura della seta, il correggiato articolato, il mulino a vento, la fabbricazione delle lenti e quella della carta, l’estrazione di minerali. Questa e tante altre soluzioni tecniche ingegnose esistevano, ma, appunto, esistevano estranee alla filosofia. Grossatesta e Ruggero Bacone si situano esattamente all’inizio di quel movimento di pensiero che, riunendo teoria e pratica, porterà alla rivoluzione scientifica.

Perché queste riflessioni su Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone? Perché insistere sul tratto empirico-scientifico del loro pensiero? E’ questa un’insistenza motivata, oggi più di ieri, dal fatto che se la ricerca scientifica risolve problemi, altri ne crea incessantemente. E in un mondo dove uno scientismo cieco ai valori etici spinge a credere che è lecito fare tutto quello che tecnicamente si può fare, gli uomini di fede non possono disinteressarsi dell’avanzamento della scienza, in particolar modo della ricerca bio-medica, e lasciare la persona umana in balia di una nuova barbarie tecnologica in grado di travolgere l’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio, nei gorghi di una prospettiva di uomini “costruiti” secondo le voglie di altri uomini. Non tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche eticamente lecito. Ci troviamo in una situazione problematica che impone di sapere cosa è tecnicamente possibile, di essere scientificamente attrezzati per controbattere quella mitologia scientista pronta a calpestare la inviolabile sacralità della persona e a negare lo spazio del sano. E, dunque, una seria attenzione agli sviluppi della scienza (soprattutto bio-medici) in ambito formativo o, addirittura, un progetto per un centro scientifico di ricerca, ad alto livello e di grande prestigio internazionale sono davvero impegni tranquillamente trascurabili dalla tradizione francescana? Si serve il Vangelo servendo l’uomo; e più si serve l’uomo dove più fosche sono le minacce alla sua dignità ed integrità. I problemi suscitati dalla bioetica sono in cima ai preoccupati pensieri del santo Padre Benedetto XVI. E la preoccupazione del Papa non può non costituire un compito , il più urgente, per il più vasto mondo cattolico? Cosa, pertanto, pensate che si possa e debba fare in questa direzione?

7. Pratica della povertà e teoria della ricchezza: il contributo della Scuola francescana del XIII secolo alla genesi del capitalismo

E’ «pazzamente dottrinaria» la tesi secondo la quale «“lo spirito capitalistico” sia potuto sorgere solo come emanazione di determinate influenze della Riforma o che addirittura il capitalismo come sistema economico sia un prodotto della Riforma. Già il fatto che alcune importanti forme di aziende capitalistiche sono notoriamente assai più antiche della Riforma si oppone una volta per sempre ad una tale opinione». Questo dichiara Max Weber in una pagina del suo notissimo scritto L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Una pagina trascurata da molti studiosi i quali, come ha scritto Kurt Samuelsson in Economia e religione, abbracciarono, difesero e diffusero l’idea di un indiscutibile ed esclusivo nesso tra l’etica calvinista e lo spirito del capitalismo «come una “merce” da accettarsi senza un’ulteriore indagine, come verità evidente per se stessa che non richiede né conferma né approfondimento». E proprio qui sta una di quelle ragioni che, quando non bloccarono le indagini in altre direzioni, spinsero nell’ombra della dimenticanza o, in ogni caso, nel regno dell’irrilevanza studi nei quali si era posta l’attenzione sui rapporti tra cattolicesimo e capitalismo.

Da qualche tempo, tuttavia, sono noti i contributi “economici” della tardoscolastica spagnola – un movimento di idee che annovera come protagonisti, tra altri, i domenicani Francisco de Vitoria (1495 -1560) e Tomàs de Mercado (1500-1575); il vescovo agostiniano Miguel Solon (1538-1620); e i gesuiti Luis de Molina (1535-1600). Juan de Mariana (1535-1624), Francisco Suarez (1548-1617) e Juan de Lugo (1583-1660). Le funzioni della proprietà privata, i principi della tassazione, il valore delle merci, il rapporto tra prezzi e conoscenza, l’interesse e l’attività bancaria, il commercio con particolare riguardo al commercio internazionale: questi alcuni dei temi economici presi in considerazione dai tardo-scolastici, le cui idee, fatte proprie da Grozio, Pufendorf e dai fisiocratici, influirono in maniera decisiva sulla Scuola Scozzese di Ferguson, Hutcheson e Smith. E tra i tardo-scolastici vanno ricordati i francescani Juan de Medina (1490-1548), Lui de Aleale ed Henrique de Villalobos. Ma se la tardo-scolastica spagnola rappresenta un vero thesaurus per la storia delle teorie economiche, per la comprensione dei fatti economici, altrettanto si deve dire, oggi della Scuola francescana del XIII secolo.

Pratica della povertà e teoria della ricchezza – cos“ potremmo sintetizzare la “teologia” economica francescana, dove la scelta della povertà più rigorosa induce molti francescani, sin dal Duecento, a riflettere sull’uso appropriato dei beni terreni da parte dei cristiani, e quindi sulla circolazione del danaro, sulla formazione dei prezzi, sui contratti, sulla moralità dell’investimento socialmente produttivo, sulla figura del mercante. E proprio in quella del mercante, la Scuola francescana – con Pietro di Giovanni Olivi, Alessandro di Alessandria, Scoto, il catalano Eiximensis, il piemontese Astesano, il provenzale Francesco de Meyronnes ed altri ancora – vede «la professione-chiave della felicità pubblica», una professione che rende possibile lo scambio tra produttori, consumatori e professionisti delle diverse competenze, e dunque il mercato quale «sistema logico, dotato di un criterio di comunicazione interna».

J. Schumpeter, nella sua monumentale Storia dell’analisi economica, scrive che fu il domenicano arcivescovo fiorentino Sant’Antonino a sostenere la funzione del prestito di denaro sia per i consumi che per gli investimenti vantaggiosi. Ma, come ben mostra Bazzichi, le cose non stanno affatto cos“, giacché Sant’Antonino si richiamava alle idee di San Bernardino da Siena (1380-1440), il quale da parte sua, le aveva tratte da due francescani: Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298) e Alessandro di Alessandria (1270-1314). Di fronte alla proibizione canonica dell’usura, è lecito distinguere fra il prestito di una somma di danaro qualsiasi e il prestito di una somma di danaro inscritto o da iscriversi nel processo produttivo, cioè impiegata in un programmato o già realizzato investimento produttivo? Ed ecco la risposta dell’Olivi: «Ciò che con ferma decisione (firmo proposito) è destinato a qualche probabile lucro, non solo ha il significato di semplice danaro o di qualsiasi merce, ma possiede in sé un qualche seme di lucro, che comunemente chiamiamo capitale. Perciò esso non solo deve prendere il suo stesso valore, ma anche un valore aggiunto (sed et valor superadiunctus)». Da ciò si vede come l’Olivi stabilisce la coesistenza fra l’interesse del capitale e la proibizione canonica sull’usura – testimonianza che smentisce quanto affermava Eugen von Boehm-Bawerk nella sua Storia e critica delle teorie dell’interesse del capitale, e cioè che fu Calvino il primo teologo a schierarsi contro il divieto dell’interesse. E se è vero che i tardo-scolastici ci hanno lasciato riflessioni sul valore dei beni economici, è anche vero che ben prima di loro i francescani del Duecento, in primo luogo l’Olivi, avevano compreso che il valore di una cosa è dato dalla raritas, dalla virtuositas e dalla complacibilitas: e questa è la preferenza che un soggetto dà ad un bene in vista dell’appagamento di un bisogno piuttosto che di un altro, stabilendo una gradualità tra questi. Si tratta – annota il Bazzichi - «della migliore e della più moderna tra le teorie del valore del Medioevo».

Cos“, alle origini. E, ai nostri giorni, in una situazione di accentuati scambi (di idee, di merci e di danaro) globalizzati, con i vantaggi e i pericoli che essi comportano per i Paesi più poveri, quale è la posizione dei seguaci del “Poverello” nei confronti della globalizzazione? Quali le loro iniziative perché il messaggio di Francesco non resti estraneo in un mondo che vorticosamente muta e che può produrre – come ammon“ Giovanni Paolo II – nuove e più subdole forme di colonialismo? E le esperienze – tante e da secoli – dei francescani relative ai rapporti con il mondo musulmano non sono una via aurea per l’avvenire? In un mondo all’epoca diviso in due blocchi, l’uno contro l’altro, quello cristiano e quello musulmano, fu Francesco a rompere gli steccati e a portarsi personalmente dal Sultano. Il tentativo di pace di Francesco si arenò e la guerra prosegu“. E, tuttavia, la sua lezione e il suo impegno restano vivi, attuali – oggi come ieri.

8. San Bonaventura: «La scienza filosofica è via ad altre scienze»

Sin qui, dunque, alcune delle ragioni che rendono attuale, e quindi carico di impegni per il presente, il pensiero francescano. Ma le cose vanno ben oltre. «Abbia pure l’uomo la conoscenza della natura e la metafisica, che si eleva fino alle sostanze più alte, e poniamo che l’uomo, arrivato qui, si fermi: è impossibile che non cada in errore, se non è aiutato dalla luce della fede e non crede che Dio è uno e trino, potentissimo e ottimo fino all’estremo della bontà […]. Perciò questa scienza precipitò e oscurò i filosofi [pagani] poiché non avevano la luce della fede […]. La scienza filosofica è via ad altre scienze, ma chi vuol fermarsi ad essa, cade nelle tenebre». Questo brano – che leggiamo nelle Collationes de donis Spiritus Sancti – esprime mirabilmente la funzione del sapere filosofico. Per quanto alto e sublime, il sapere filosofico, se trattiene lo sguardo in sé e non lo rinvia ad un sapere più alto, teologico o mistico, è fonte di errori. Bonaventura non è dunque contro la filosofia in genere, bens“ contro quella filosofia incapace di cogliere la tensione del finito all’infinito, dell’uomo a Dio, nella concretezza del nostro essere, tendenzialmente orientato alla salvezza, ma esposto costantemente al male.

Il problema di Bonaventura, pertanto, non è quello di avversare l’uso della ragione e ogni filosofia, bens“ quello di distinguere «tra una ragione e una filosofia o teologia cristiana e una filosofia non cristiana, tra una ragione che è mezzo della fede alla visione beatifica […] e una ragione che, chiudendosi in una propria autosufficienza, nega il soprannaturale in sé» (T. Gregory). Egli è contro una filosofia non cristiana, contro una ragione autosufficiente che non è capace di cogliere nel mondo il signum, l’orma di Dio: è contrario ad una ragione che ritiene il mondo una realtà totalmente profana e con leggi autonome e autosufficienti. Bonaventura, insomma, compie una scelta consapevole di quella tradizione di pensiero che da Platone, attraverso Agostino e Anselmo, aveva sorretto la riflessione cristiana nel considerare il mondo come un sistema di ordinate rispondenze, come un tessuto di significati e di rapporti allusivi a Dio uno e trino, e l’uomo come l’inquieto pellegrino dell’Assoluto tripersonale.

A che serve una filosofia che non renda più evidente la presenza di Dio nel mondo e non porti a compimento l’aspirazione dell’uomo alla conoscenza e al possesso di Dio? L’esercizio della ragione è salutare se ci consente di scoprire nel mondo e in noi stessi quei germi divini che poi la teologia e la mistica portano a completa maturazione. Il programma di Bonaventura, che è a fondamento delle sue scelte filosofiche, è costituito dal “quaerere Deum” che “relucet” e “latet” nelle cose, che si manifesta e si nasconde, e intorno al quale deve compiersi lo sforzo della “meditatio”, secondo la tradizione monastica, come prologo alla “consummatio”, costituita dalla visione beatifica. La scienza filosofica, che Bonaventura cerca e, a suo modo, elabora, è dunque “via alle altre scienze”, costituite dalla teologia e dalla mistica, di cui la filosofia è appunto prologo e strumento.

Verso quale filosofia S. Bonaventura è diffidente? Verso la filosofia aristotelica che, nella versione averroista, aveva mostrato tutta la sua forza corrosiva nei riguardi del pensiero cristiano. Bonaventura aveva studiato Aristotele nella Facoltà delle Arti, cui si era scritto nel 1235, quando l’ingresso delle opere dello Stagirita poteva dirsi completo. Qui, infatti, nella Facoltà delle Arti, «Aristotele era ben presente con la Logica vetus e la Logica nova a fianco di Porfirio, di Boezio e del Liber sex principiorum. Aristotele era parimenti presente con i libri I, III dell’Etica Nicomachea, con la Metafisica e i Libri naturales, che malgrado il divieto di Gregorio IX, erano insegnati a Parigi» (J. G. Bougerol).

Bonaventura aveva quindi studiato Aristotele e dunque lo conosceva soprattutto nella versione averroista. Egli, però, pur apprezzando i suoi molti contributi allo studio della natura, ne respinse lo spirito e gli orientamenti generali, perché estranei alla vicenda e al destino del cristiano. Aristotele è un’autorità nel campo della fisica, non però in quello del sapere filosofico, nel quale l’autorità spetta a Platone e, superiore a entrambi, ad Agostino: “inter philosphos datus sit Platoni sermo sapientiae, Aristoteli vero sermo scientiae; uterque autem sermo, scilicet sapientiae et scientiae […] datus sit Augustino”, cos“ leggiamo in Christus unus omnium magister. Bonaventura, dunque, sceglie la tradizione platonico-agostiniana contro quella aristotelica, perché per la prima la filosofia è apertura alla Trascendenza, è la teorizzazione dell’anelito delle cose e del-l’uomo a Dio e, nel ripensamento agostiniano, chiarimento delle implicazioni esisten-ziali della fede; per la seconda, invece, la filosofia è riflessione autonoma e, per molti versi, chiusa in se stessa e, pertanto, deviante. La filosofia di ispirazione aristotelica non poteva sorreggere lo sforzo di Bonaventura di connettere strettamente le componenti filosofiche con quelle teologiche, l’elemento rivelato con quello razionale. Egli andava alla ricerca di una filosofia che alimentasse la sua religiosità, il suo abbraccio costante con la teologia, il suo misticismo, quel calore affettivo, per cui ogni passo è insieme un atto di intelligenza e un atto di amore. Nel quadro della tradizione monastica e dello spirito religioso portato da Francesco d’Assisi, Bonaventura, di fronte alle tradizioni filosofiche più autorevoli, opta per quella platonica e respinge, dunque, quella aristotelica.

9. Ancora San Bonaventura: un cristiano non può pensare mettendo tra parentesi la propria fede

«Le tesi fondamentali di San Bonaventura derivano da Sant’Agostino, considerato come il più illuminato interprete di quella Scrittura in cui risiede la norma della verità. Bonaventura infatti (come già Agostino e, a differenza di San Tommaso), non ammette una autonomia della natura dalla sua radice divina, e, quindi, neppure dalla ragione naturale, la quale giunge a conoscere solo grazie alla presenza illuminante di Dio» (V. Mathieu). Bonaventura, in breve, prende sul serio la Rivelazione. Ed è a partire dal Cristo che Bonaventura guarda e legge la storia dell’uomo e dell’universo intero. E «una volta che l’anima ha preso coscienza di questa impressionante verità – commenta Gilson – essa non solamente non può più dimenticarla, ma essa non può più pensare a niente se non in rapporto a siffatta verità; le sue conoscenze, i suoi sentimenti, le sue volontà si trovano illuminati da una luce tragica; il cristiano vede un destino che si decide là dove l’aristotelico non vede che una curiosità da soddisfare. San Bonaventura, prosegue Gilson, è, da parte sua, profondamente penetrato da questo sentimento tragico […]. Egli pensa perché è per lui un problema di vita o di morte eterna quello di sapere di pensare ad altre cose; è sopraffatto dall’angoscia nel vedere che l’opera creata da Dio, riparata dal sangue di un Dio, viene ogni giorno ignorata e disprezzata». Il pensiero (per San Bonaventura), dice ancora Gilson, «deve dunque essere uno strumento di salvezza e niente altro; che esso metta il Cristo al centro della nostra storia come Egli è al centro della storia universale, non dimenticherà mai che un cristiano non può pensare niente come lo penserebbe se egli non fosse cristiano». Ed è cos“ che comprendiamo il concetto di filosofia cristiana in Bonaventura. «La filosofia non comincerà senza il Cristo, perché è Lui che ne è la fine. Essa si trova dunque davanti alla scelta o di condannarsi sistematicamente all’errore o di tener conto di fatti di cui essa è ormai informata».

La filosofia di Bonaventura è, dunque, una filosofia cristiana. Bonaventura è un Cristiano che filosofa, e non un filosofo che è anche Cristiano. Bonaventura è un mistico. Egli guarda il mondo con gli occhi della fede. La ragione è un instrumentum fidei; la ragione legge ciò che la fede illumina; la ragione è una grammatica scritta con l’alfabeto della fede. Per tutto questo ben si comprende come la filosofia di San Bonaventura e quella di San Tommaso – almeno in certa tradizione interpretativa – siano, in qualche modo, per usare un’espressione dell’epistemologia contemporanea, incommensurabili. Certo, ci sono dei punti in comune: sono due filosofi cristiani e ogni minaccia contro la fede li trova uniti. «Si tratta del panteismo? L’uno e l’altro insegnano la creazione ex nihilo e affermano una distanza infinita tra l’essere per sé e l’essere partecipato. Si tratta dell’ontologismo? L’uno e l’altro negano formalmente che Dio possa essere visto dal pensiero umano in questo mondo […]. Si tratta di fideismo? L’uno e l’altro oppongono ad esso lo sforzo più completo dell’intelligenza per provare Dio e interpretare i dati della fede. Si tratta del razionalismo? L’uno e l’altro coordinano lo sforzo dell’intelligenza all’atto di fede e sostengono l’influenza benefica dell’atto di fede sulle operazioni dell’intelligenza. Accordo profondo, indistruttibile, proclamato dalla tradizione […] e mai contestato» (È. Gilson). Ma quest’accordo, potremmo dire con i gestaltisti, è sulle linee, non sulla forma. I dati son gli stessi, ma si vedono in una luce differente. Nel 1879 Leone XIII parlò di Tommaso e Bonaventura come di duae olivae et duo candelabra in domo Dei lucentia. Ma quel che subito è da rilevare è che la luce dei due candelabri illumina diversamente le cose. In realtà, l’accordo non è identità ed è chiaro che queste due dottrine sono organizzate secondo due preoccupazioni differenti; non vedono mai gli stessi problemi sotto il medesimo aspetto. Si tratta di due filosofie complementari: la fede in Dio è unica e i tentativi umani di situarci nella e per la fede sono molteplici. La fede, insomma – possiamo dire noi – è liberante: ci consente e ci impone di essere interpreti creativi, nella consapevolezza che i nostri tentativi sono e restano umani, non assoluti e relativi alla cultura dell’epoca, ai mezzi espressivi a disposizione dell’interprete.

10. La rilevanza della grande tradizione del pensiero francescano

La nostra storia, la storia dell’intellettualità cristiana, è colma di sofferenze causate da tanta nostra presunzione. La tentazione integralista ha fatto le sue vittime. Tentazione consistente nella seguente affermazione: la mia interpretazione della fede è la fede; o in quest’altra affermazione: senza la mia filosofia la fede non trova un fondamento, è solo una favola illusoria.

Dunque: senza il fondamento di questa o quella filosofia la fede non sarebbe nient’altro che «una specie di puro impegno emotivo», «una fabulazione più o meno vaga e mitica»; in altri termini, si è preteso di affidare «al discorso breve e rigoroso del metafisico la sorte di una cosa tanto grande, quanto può esserlo una fede religiosa, il senso stesso della vita, il significato medesimo dell’intera civiltà cristiana».

Di fronte a posizioni del genere, c’è da chiedersi: ma a fondamento della fede c’è Cristo ovvero, per esempio, Aristotele? Nel maggio del 1996, l’allora cardinale Joseph Ratzinger tiene a Guadalajara, in Messico, una conferenza in occasione dell’incontro tra la Congregazione della Dottrina della Fede e i Presidenti delle Commissioni per la Dottrina della Fede della Conferenza Episcopale dell’America Latina. Di questa Conferenza – apparsa successivamente sia su l’Osservatore Romano (27 ottobre 1996) che su La Civiltà Cattolica (quaderno 3515, IV, 1996), con il titolo La fede e la teologia ai giorni nostri, ecco la conclusione sul tema dei rapporti tra ragione e fede: «Ritengo che il razionalismo neoscolastico sia fallito nel suo tentativo di voler ricostruire i Praeambula Fidei con una ragione del tutto indipendente dalla fede, con una certezza puramente razionale; tutti gli altri tentativi, che procedono su questa medesima strada, otterranno alla fine gli stessi risultati. Su questo punto aveva ragione Karl Barth, nel rifiutare la filosofia come fondamento della fede, indipendentemente da quest’ultima: la nostra fede si fonderebbe allora, in fondo, su mutevoli teorie filosofiche». Nel volume Il sale della terra sempre l’allora cardinale Ratzinger scrive che «La sostanza di questa fede è che noi riconosciamo in Cristo il Figlio di Dio, vivente, incarnato e divenuto uomo; che per mezzo suo crediamo in Dio, il Dio della Trinità, creatore del cielo e della terra […]». Sembrano proprio frasi tratte da San Bonaventura.

C’è un’altra pretesa – quella dell’integralista – dove si afferma: la mia interpretazione della fede è la fede, o, anche: solo la mia filosofia è una filosofia cristiana. Una storia di incomprensioni e di sofferenza. Ed ecco, allora, la Fides et ratio. L’enciclica è, innanzi tutto, una netta presa di distanza da quegli “assoluti terrestri” che hanno preteso di proibire lo spazio della fede, di quelle filosofie che hanno inteso «cancellare dal volto dell’uomo i tratti che ne rivelano la somiglianza con Dio, per condurlo progressivamente o ad una distruttiva volontà di potenza o alla disperazione della solitudine». Simultaneamente, la Fides et ratio è una difesa della legittimità, sensatezza, razionalità e umanità della domanda metafisica. La filosofia «si configura come uno dei compiti più nobili dell’umanità», giacché è proprio la filosofia a mantenere vive quelle domande di fondo che caratterizzano il percorso dell’esistenza umana: chi sono, da dove vengo e dove vado? Perché la presenza del male? Che cosa ci sarà dopo questa vita? «Sono queste domande – diceva il Santo Padre – che hanno la loro comune scaturigine nella richiesta di senso che da sempre urge nel cuore dell’uomo: dalla risposta a tali domande, infatti, dipende l’orientamento da imprimere all’esistenza». E qui, l’enciclica, pur insistendo sui poteri della ragione umana, ne sottolinea a più riprese i limiti. E a chiare lettere afferma che non è dalla ragione che viene la salvezza. La ragione umana pone una domanda – la domanda metafisica – alla quale solo Cristo offre la risposta soddisfacente. Si chiede e chiede il Santo Padre: «Dove l’uomo potrebbe cercare la risposta ad interrogativi drammatici come quelli del dolore, della sofferenza dell’innocente e della morte, se non nella luce che promana dal mistero della passione, morte e resurrezione di Cristo?».

«La ragione non può svuotare il mistero d’amore che la Croce rappresenta, mentre la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca».

«La fede non è come tale una filosofia […]. Come virtù teologale, [la fede] libera la ragione dalla presunzione, tipica tentazione a cui i filosofi sono facilmente soggetti».

«L’uomo si trova in un cammino di ricerca, umanamente interminabile: ricerca di verità e ricerca di una persona a cui affidarsi. La fede cristiana gli viene incontro offrendogli la possibilità concreta di vedere realizzato lo scopo di questa ricerca».

«La conoscenza che essa [Chiesa] propone all’uomo non le proviene da una propria speculazione, fosse anche la più alta, ma dall’avere accolto nella fede la parola di Dio».

Dunque: è la Croce che può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca. E, d’altro canto: «Nessuna forma storica della filosofia può legittimamente pretendere di abbracciare la totalità della verità, né di porsi come spiegazione piena dell’essere umano, del mondo e del rapporto dell’uomo con Dio».

«Il fatto che la missione evangelizzatrice abbia incontrato sulla sua strada per prima la filosofia greca, non costituisce indicazione in alcun modo preclusiva per altri approcci».

«La Chiesa non propone una propria filosofia né canonizza una propria filosofia a scapito di altre».

«Le vie per raggiungere la verità rimangono molteplici; tuttavia, poiché la verità cristiana ha un valore salvifico, ciascuna di queste vie può essere percorsa, purché conduca alla meta finale, ossi alla Rivelazione di Gesù Cristo».

E in questo orizzonte ben si comprende la rilevanza, la capacità di rispondere ad urgenti problemi attuali, di quella via – che è un tratto identitario dell’Europa – e che è costituita dalla grande tradizione del pensiero francescano.

 

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Schweitzer e cassirer: memoria e speranza

di E. Donadon

 

Introduzione

«Perché i classici sono la riserva del futuro», torniamo ad Agonia della civiltà (1923) di Albert Schweitzer ed a Il mito dello stato (1945) di Ernst Cassirer. Li accomuna la radiografia dello «spirito dell’epoca» che ha preparato il terreno di due conflitti mondiali. Alla testimonianza della disumanità delle guerre, i due pensatori affiancano un progetto per l’uomo e la società. Trovano il motivo della comprensione e della vicinanza tra gli uomini nel rispetto per il valore di ogni vita. Affidano all’educazione, secondo questo principio, la speranza per il futuro dell’umanità.

I testi sono stati scritti negli anni in cui i due filosofi tedeschi erano esuli: Schweitzer, nell’Africa Equatoriale Francese, per mettersi al servizio dell’umanità e poi nei campi di prigionia francesi; Cassirer, negli Stati Uniti, per sfuggire dall’oppressione nazista.

1.      La genesi delle due opere

1.1 Lungo il fiume Ogooyé

Il filosofo, teologo, concertista e medico A. Schweitzer (1875-1965) mette mano ad Agonia della civiltà «il secondo giorno del [suo] internamento» nell’abitazione attigua all’ospedale di Lambaréné, perché «suddito germanico ospite di una colonia francese». In quella stazione missionaria dell’Africa Equatoriale Francese (odierno Gabon), i coniugi Schweitzer erano giunti nel 1913 per curare i lebbrosi e gli afflitti dalla malattia del sonno. Il 5 agosto 1914, quando in Africa giunge la notizia dello scoppio della Grande Guerra, le autorità del Gabon considerano gli Schweitzer prigionieri di guerra. Chiuso l’ospedale, il medico-missionario ha quindi il tempo di riflettere sulla situazione in Europa e di formulare la sua diagnosi circa la malattia del genere umano che è sfociata nella guerra. Egli ipotizza che il conflitto mondiale sia «la tragica conseguenza di un processo di decadimento spirituale della civiltà» moderna legato alla mentalità non etica (irrazionale) degli individui e delle nazioni. L’irresponsabilità etica, legata ai pregiudizi ed alle passioni politiche, ha reso impossibile la soluzione razionale delle controversie internazionali. La Prima Guerra mondiale è scoppiata perché: «I governanti grandi o piccoli agirono secondo lo spirito del tempo». A ciò ha contribuito la filosofia, non più “guida” della ragione nell’epoca del rapido progresso della scienza e della tecnica, dell’ideologia economica e del mito del superuomo. Così: «La creatura sovroccupata, non più capace di vero raccoglimento, che è l’uomo moderno, è caduta in balia dell’asservimento spirituale, di ogni sorta di esteriorizzazione, di un’errata valutazione della storia e della realtà, del nazionalismo da questa derivante, di una spaventosa assenza di umanità»1. La terapia appropriata per l’uomo in crisi d’identità è perciò quella di aiutarlo a ritrovare la fiducia in se stesso. Contro lo spirito dell’epoca che lo spinge allo scetticismo nei confronti del proprio pensiero: «Dobbiamo – dice Schweitzer - ritornare ad una visione del mondo che racchiuda in sé gli ideali della civiltà autentica (…) tutto ciò che è compreso nei concetti di amore, dedizione, compassione, gioia ed anelito comune»2. Nel principio evangelico dell’amore, egli trova “la scintilla” che riaccende il fuoco del pensiero mentre educa l’uomo alla responsabilità naturale e fattiva verso se stesso ed ogni altra forma del creato. E’ dunque «sulla via del pensiero», o dell’etica, colui che riflette sulla propria vita di creatura e sulle altre del creato e trova in questa coesione del mondo il motivo per sentirsi utile al prossimo, alla società ed alla nazione. «Il vero cuore riflette e l’autentica ragione ha sentimenti»3, dice Schweitzer. Ascoltandoli, ogni persona può sperare nel futuro dell’umanità, in un presente segnato dalla disumanità della guerra.

Alla fine dell’estate 1915, Schweitzer trova all’improvviso l’espressione che riassume il concetto “elementare” ed “universale” dell’etica e dell’affermazione d’ogni vita che andava cercando. Succede, durante un viaggio in piroscafo che il medico-missionario compie lungo le acque del fiume Ogooyé per raggiungere un ammalato. Egli ricorda che mentre il pilota manovrava il piccolo piroscafo per aprirsi un passaggio fra un’orda di ippopotami che si muovevano nella stessa direzione dell’imbarcazione, gli è venuta in mente d’un tratto la frase: rispetto per la vita. Nasce da quest’esperienza vissuta l’espressione che ricapitola l’essenza di un’etica universale. Per Schweitzer, la norma morale del rispetto per la vita assegna ad ogni uomo la responsabilità per la conservazione e l’affermazione delle infinite volontà di vita presenti nel creato. Essa infatti presuppone la fondamentale forza di sopravvivenza presente in ogni creatura: «Io sono un essere vivente che vuole vivere, circondato da altri esseri viventi che vogliono vivere»4. Solo l’uomo che riflette sulla vita, data da Dio, e la ritrova in tutti gli esseri del mondo agisce in modo “naturale” e “sincero” restando fedele a se stesso.

Lasciati a Lambaréné i primi appunti, scritti in tedesco, sul rapporto tra etica e civiltà moderna, l’impegno di Schweitzer prosegue nel campo di prigionia di Bordeaux, dove il filosofo è trasferito nel settembre 1917; poi nel campo di concentramento di Garaison (Pirenei) ed infine in quello di St. Remy de Provence (1918) dove rimane fino alla fine del conflitto mondiale. «Quante notti, seduto a tavolino, pensai, meditando e scrivendo, a coloro che giacevano nelle trincee»5, ricorda. Il suo contributo alla pace è racchiuso nell’etica del «Rispetto per la volontà di vita in me e fuori di me»6: la parola di Gesù contro l’irrompere di tragedie immani.

In un mondo che è «l’orrendo nello splendore, l’assurdo nel comprensibile, la sofferenza nella gioia»7, e che resta sempre “enigmatico” per l’uomo, ognuno coglie in sé ed intorno a sé solo il mistero della vita racchiuso in quell’istinto indefinibile di conservazione che anche gli animali possiedono. La vera conoscenza della vita e del mondo consiste dunque nella docta ignorantia dei mistici del Medioevo. «La dotta ignoranza della mistica etica è ignoranza in quanto si rassegna a non capire niente del mistero del mondo. E’ dotta perché sa che l’unica cosa che ci sia possibile sapere e che ci sia necessario sapere è che tutto quel che esiste è vita e che votandoci agli altri esseri noi realizziamo l’unione spirituale con l’Infinito che contiene in sé tutte le esistenze»8. Dalla constatazione che solo attraverso l’etica, lo spirito umano può comunicare con lo Spirito universale, nasce il dovere per l’uomo di operare prima di tutto in se stesso. Attraverso l’auto-perfezionamento etico gli deriva «una segreta auto-affermazione spirituale (…) un’insospettata libertà di fronte alle vicende della vita (…) la felicità dell’essere-libero-dal-mondo»9 e la libertà di dedicarsi con gioia alla vita degli altri.

Il 23 febbraio 1919, Schweitzer presenta per la prima volta al pubblico la massima morale del Rispetto per la vita, in una meditazione tenuta nella chiesa di St. Nicolai a Strasburgo. «E’ bene mantenere e promuovere la vita; è male ostacolare e distruggere la vita» ne è l’esordio. Nel 1923, viene pubblicato Agonia della civiltà «prima parte di una completa filosofia della civiltà».

Nel 1924, il medico-missionario ritorna a Lambaréné. Si pone di nuovo al servizio della vita: ricostruisce l’ospedale, cura le malattie, combatte il potere degli stregoni, insegna agli indigeni a strappare i terreni coltivabili dalla giungla e fornisce loro i primi rudimenti di economia. «L’agricoltura e l’artigianato sono il muro di fondazione della civiltà»10. A questo proposito J. Gollomb, in A. Schweitzer il genio nella giungla, riferisce che il modo di lavorare del medico era stato d’esempio per Oyembo, l’indigeno che traduceva i suoi sermoni in lingua locale ed insegnava ai bambini del villaggio. Costui aveva avviato con successo una società commerciale, per la vendita di legname, di cui facevano parte gli abitanti del villaggio.

Con la coerenza della sua esistenza, Schweitzer indica quindi il Rispetto per la vita come il fondamento etico che trascende l’individuo, lo Stato e la nazione. Senza di questo “grande” e “semplice” comandamento non c’è civiltà.

1.2 Gli amici americani di Cassirer

Alle riflessioni di Schweitzer avrebbe fatto eco di lì a poco Cassirer (1874-1945), filosofo neokantiano della Scuola di Marburgo. Egli ritiene, infatti, che le condizioni spirituali esistenti in Germania, nel periodo tra le due Guerre Mondiali, non possano essere descritte “in maniera migliore e più efficace” che con le parole pronunciate da Schweitzer, quando l’infuriare della Prima Guerra mondiale sembrava «un segno del tramonto della civiltà».

La filosofia non è stata “guardiano” e “guida” della ragione neppure negli anni successivi alla Grande Guerra, annota Cassirer, perché i filosofi sono rimasti “imprigionati” nelle sottigliezze della filosofia dimenticando il suo nesso con i problemi più urgenti dell’uomo. Essa non è stata in grado di assolvere il suo più importante compito educativo. «Non ha insegnato all’uomo come sviluppare le sue facoltà attive al fine di formare la sua vita individuale e sociale»11 nell’epoca in cui la frammentazione e la specializzazione delle ricerche sull’uomo scatenata dall’evoluzione della scienza e l’ideologia economica hanno reso l’uomo insicuro, succube della massa e del nazismo. La filosofia ha quindi il compito di aiutarlo a riacquistare fiducia in se stesso, tramite la conoscenza dell’energia del pensiero (il simbolo) che produce le opere della cultura. Cassirer trova nel concetto di uomo inteso come animale simbolico una definizione che compendia le molteplici forme di vita spirituale che lo caratterizzano. Il mito, la religione, l’arte, il linguaggio, la storia e la scienza sono le singole forme simboliche di una totalità (cultura) che l’uomo ha progressivamente sviluppato per giungere alla civiltà. Sono variazioni di un tema comune: la capacità umana di allontanarsi dalla forme espressive più immediate ed emotive (i miti) per conquistare la razionalità scientifica. Ciò che lo affranca dalla sua natura animale è l’atteggiamento critico verso se stesso ed il mondo.

La filosofia ha così di nuovo il compito di aiutare l’uomo ad autoliberarsi dalle forme irrazionali del mito: le armi “spirituali” che essa ha fornito ai politici tedeschi per scalzare il pensiero razionale. Secondo Cassirer, nel periodo tra la Prima e la Seconda Guerra mondiale, le armi non sono mai state deposte. Hanno solo assunto una forma più sottile e sofisticata. I capi politici hanno utilizzato il mito, mascherato in forme nuove (linguaggio, riti, profezie) per completare e perfezionare le armi materiali ed obbligare gli individui all’azione decretata dall’alto. In mano loro i nuovi miti (convinzioni non razionali e aspirazioni della collettività) sono diventati strumenti razionali di distruzione della volontà e della libertà individuale. I politici hanno accentuato di proposito la componente emotiva del mito per screditare il pensiero critico degli individui, far prevalere il potere dello Stato sull’individuo e sopprimere il senso stesso della libertà. Per Cassirer, ciò è alla base della crisi politica e sociale che ha portato le nazioni alla Seconda Guerra mondiale.

La teoria che chiarisce l’origine, la natura e la funzione del mito nella vita politica del Novecento, cioè: «La preponderanza del pensiero mitico sul pensiero razionale in alcuni nostri sistemi politici moderni» è proprio il tema di Il mito dello stato. Negli anni di crisi della cultura e della storia mondiale, Cassirer assegna alla filosofia il compito etico di “guardiano” della ragione. «Perennemente in via di attualizzazione», l’autentica natura della ragione «dobbiamo ricercarla nell’eterna opera dell’autorinnovamento dello spirito»12, afferma Cassirer, come già Schweitzer.

I due pensatori si conoscevano e, nel 1933, le loro strade si incontrano ad Oxford: di ritorno in Europa dall’Africa, Schweitzer; proveniente da Amburgo, Cassirer. Per Schweitzer la città inglese è una tappa del suo itinerario europeo di conferenze e concerti a sostegno dell’ospedale di Lambaréné in cui è tornato ad operare come medico-missionario dopo la parentesi della Grande Guerra. Per Cassirer, d’origine ebrea, Oxford è una tappa della sua “odissea” accademica iniziata presso le Università di Marburgo, Berlino e Amburgo. La fuga dall’oppressione nazista lo porta da Amburgo all’All Souls College di Oxford, poi all’Università di Göteborg ed infine a Yale ed alla Columbia University dove rimane fino alla morte (1945). Il mito dello stato è l’ultimo libro che il filosofo scrive in difesa dell’autonomia e della libertà di pensiero. Tra il 1944 e il 1945, negli Stati Uniti, «per venire incontro a una istanza dei suoi più intimi amici americani», egli interpreta la vita politica moderna mentre illustra il rapporto tra il mito e le altre forze culturali. «Finché queste forze intellettuali, etiche e artistiche sono in pieno vigore – dice - il mito è domato e soggiogato. Ma non appena esse cominciano a perdere vigoria, il caos ritorna»13. Solo attraverso la cultura si può costruire un mondo nuovo, perché nell’ambito delle sue forme simboliche può avvenire la progressiva autoliberazione dell’uomo dai vincoli dell’irrazionalità. Il suo progetto per l’uomo nella società si avvicina all’impegno di Schweitzer in difesa della vita, della libertà di pensiero e della pace nel mondo tanto è vero che Cassirer lo definisce: «l’incarnazione per eccellenza dell’Ethiker nella società contemporanea»14.

Oggi “l’urgenza” dei tempi chiede ancora che la filosofia sia la forza dell’uomo: non può starsene in disparte, “muta e inerte”. Deve aiutare l’uomo ad interrogarsi circa il senso della vita, la natura del bene e del male, il suo rapporto con gli altri uomini e con tutto il creato. La riflessione rende l’uomo libero di vagliare criticamente le proposte della società per ricercare la verità delle questioni e mettersi al suo servizio. Così, anche nel nostro tempo, l’etica del Rispetto per la vita può includere e richiamare un sempre nuovo risveglio alla vita secondo le parole di Schweitzer: «Quando in primavera al grigio arido dei pascoli si sostituisce il verde brillante, vuol dire che milioni di germogli spuntano freschi dalle vecchie radici. Nello stesso modo un rinnovamento del pensiero, essenziale per il nostro tempo, può realizzarsi soltanto attraverso la trasformazione delle opinioni e degli ideali della maggioranza mediante una riflessione individuale e generale sul significato della vita e del mondo»15.

2. A. Schweitzer

2.1 I barbari Stati civili

«Quando gli eventi inesorabilmente ci richiamano al fatto che stiamo vivendo in un pericoloso e tumultuoso momento, tra civiltà e barbarie, dobbiamo, lo si voglia o no, cercare di determinare la natura della vera civiltà»16. Così Schweitzer in Agonia della civiltà dove affronta la questione della decadenza spirituale della civiltà moderna e del suo ripristino partendo dal presupposto che essa ha carattere essenzialmente etico. «Il principio fondamentale del bene consiste nel fatto che ci impone di mantenere la vita, di incrementarla e di innalzarla al suo valore più alto; e compiere il male significa: distruggere la vita, nuocere alla vita, impedirne lo sviluppo»17.

Secondo questa prospettiva, l’origine della civiltà si deve alla mentalità “etica e positiva” degli individui che si sono messi al servizio della vita e del mondo con “entusiasmo e abnegazione” per il progresso spirituale e materiale dell’uomo. Questa dedizione senza riserve obbliga l’uomo ad operare prima di tutto su se stesso, perché solo il dominio di sé lo rende libero e capace di agire per amore della vita, «con forza più alta e più pura». Nella tensione etica l’individuo acquista valore come persona e le sue riflessioni circa il significato di ogni vita prendono consistenza in azioni concrete per l’affermazione della ragione sulle inclinazioni umane e sulle forze della natura. «Il progresso morale è quindi l’essenza stessa della civiltà». Mancando il fondamento etico, la civiltà crolla.

«Oggi viviamo sotto i segni del crollo della civiltà. Ciò non è conseguenza della guerra, anzi questa non è che un sintomo»18 di un’epoca che ha dimenticato i valori etici di cui è stata portatrice la filosofia, ha screditato il pensiero individuale ed ogni forma di razionalismo e liberalismo. La Prima Guerra mondiale è scoppiata perché «i governanti grandi o piccoli agirono secondo lo spirito del tempo» caratterizzato dalle conquiste materiali della scienza e della tecnica e determinato dalla Realpolitik che ha calpestato i diritti dell’uomo enunciati nel XVIII sec. ed ha forgiato l’opinione pubblica «seguendo la morale dei dominatori, cioè la volontà di potenza». Così, l’uomo moderno, condizionato dall’enorme sviluppo delle scienze del XX sec., assillato dal lavoro e dalla retorica del superuomo, è diventato scettico nei confronti del proprio pensiero. Abbandonato il senso critico, fa sua la mentalità della massa. L’uomo moderno si è trasformato in un “non-uomo”. Ricettivo ai dettami della propaganda politica, egli accetta la verità decretata dall’alto senza riflettere perché il suo pensiero non è più guidato dalla filosofia. «Un tempo la filosofia era un attivo operaio che creava convinzioni universali riguardanti la civiltà»19, scrive Schweitzer. Dalla metà del diciannovesimo secolo, le “idee elementari” circa l’uomo, la società, la razza, l’umanità, la civiltà non si sono più trasformate in “vivente” filosofia del popolo come avveniva nell’età degli illuministi. Da allora, la filosofia ha perso lo “spirito creativo” e «si fa studio che filtra i risultati delle scienze storiche e naturali». Il legame logico con il mondo si è interrotto. Essa non esorta più gli uomini a porsi di fronte ai problemi sociali con spirito critico per ricercarne la verità. Non li induce a lottare per sostenere quella visione etica del mondo e della vita sulla quale poggia la civiltà. «Nell’ora del pericolo il guardiano che avrebbe dovuto tenerci svegli dormiva, cosicché noi non opponemmo resistenza alcuna (…) all’opinione pubblica tenuta in vita dalla stampa, dalla propaganda, dalle organizzazioni, dal denaro e da altri mezzi a sua disposizione»20.

Il declino della civiltà è dunque legato all’abdicazione del pensiero critico, alla mentalità collettiva che “fiacca” il sentimento di umanità degli individui ed al «tipo del nostro progresso». Il vero progresso della civiltà presuppone uomini liberi di mettere la propria creatività al servizio dell’affermazione della vita e del mondo. L’uomo moderno invece è uno “strumento” di lavoro incapace di riflessione e di creatività. «Occupare il poco tempo libero in un’opera d’auto-educazione, in seria compagnia di amici e di libri, richiede un raccoglimento mentale e un auto-controllo che l’individuo non possiede. L’ozio completo, l’oblio di se stesso e della quotidiana attività rappresentano allora una necessità fisica». Egli cerca così il divertimento che non fa pensare, aggregandosi. E «la mentalità della massa, spiritualmente depressa e incapace di raccoglimento interiore, agisce su tutte le istituzioni che dovrebbero servire la causa della cultura e con essa quella della civiltà»21. A questa mentalità che “spersonalizza” l’individuo danno alimento il teatro, i periodici, i giornali che espongono gli argomenti nella forma più facilmente assimilabile dai lettori invece di indurli alla riflessione. Lo spirito della “superficialità” dilaga, dunque, nella società moderna per l’assenza di libertà e di concentrazione mentale dell’individuo che associa alle lacune della formazione intellettuale l’incapacità d’ogni sollecitudine nei confronti del prossimo, dei valori etici e della civiltà. Egli subordina la propria personalità e le idee allo spirito di gruppo perché ritiene una “conquista” la sua dipendenza dalla mentalità collettiva. L’individuo è portato a credere che la sua “devozione” agli interessi della collettività salvi la “grandezza” dell’uomo moderno, anche perché le opinioni predominanti della società organizzata, determinate dalla nazionalità, dal credo, dal partito politico, dalla posizione sociale e da altri fattori dell’ambiente sono «protetti da una sorta di tabù e non solo stanno al di sopra di qualsiasi critica, ma neanche possono costituire legittimo argomento di conversazione»22. L’individuo non oppone più resistenza, non ricerca la verità delle questioni lasciandosi guidare da ogni affermazione della propaganda politica elevata a “dignità” di opinione pubblica. «Così siamo entrati in un nuovo Medioevo», afferma Schweitzer. Rinunciando all’atteggiamento critico, l’uomo è pronto a giustificare qualsiasi crudeltà ingiustizia o follia in nome della propria nazione. «Senza averne coscienza, la maggioranza dei cittadini dei nostri barbari Stati “civili” concede sempre minor tempo alla riflessione morale per evitare di cadere in intimo dissidio con la collettività e di dover così ogni momento reprimere dubbi di coscienza»23. Inoltre, l’opinione pubblica diffonde l’idea che: «Le idee della collettività devono essere giudicate non già secondo valori etici, ma secondo il metro della convenienza. Così l’individuo reca ingiuria alla propria anima». E mentre la società schiaccia gli individui invece di sorreggerli, come avveniva nell’epoca del razionalismo e della “grande” filosofia, le idee etiche su cui poggia la civiltà «vanno attorno povere e nude». Schweitzer scrive: «Il fallimento dello Stato incivilito, sempre più evidente man mano che gli anni passano, sta rovinando l’uomo d’oggi; la demoralizzazione dell’individuo per opera della società è in pieno corso»24. Per superarla, gli uomini devono di nuovo imparare a riflettere su se stessi e sul mondo. «La rinuncia a pensare è una dichiarazione di fallimento spirituale».

2.2 Il nazionalismo

L’essenza della civiltà dipende dalla disposizione mentale etica degli individui e delle nazioni, si legge sempre in Agonia della civiltà. L’affermazione del filosofo va contro la “superficiale” convinzione diffusa dai pensatori del suo tempo, secondo i quali la civiltà è solo la manifestazione della naturale evoluzione umana legata alle conquiste scientifiche, tecniche ed artistiche degli uomini. Per questo motivo, scrive Schweitzer, negli anni precedenti la Prima Guerra mondiale: «Invece di discutere insieme gli elementi essenziali, che decidono il carattere dello sviluppo sociale - Popolazione, Stato, Chiesa, società, progresso - ci accontentammo dei dati empirici. (…) Così ideali che erano stati scientificamente ridotti dominarono la nostra vita spirituale e il mondo intero»25. In questa situazione, la concezione etica della civiltà è venuta meno e l’individuo, privo di ideali attuabili, non è stato più capace di distinguere i valori reali da quelli immaginari. Egli ha reagito ai fatti in modo irrazionale, senza vagliarli criticamente per tentare di ricercarne la verità. E gli storici invece di richiamare l’individuo «a riflessivo apprezzamento dei fatti; invece di porsi quali educatori non sono rimasti che studiosi»26. Secondo il filosofo, la generazione degli storici del suo tempo non ha senso storico: non ha «obiettività critica di fronte agli eventi remoti e recenti»27. Essi attribuiscono al passato un peso maggiore del presente, pretendono di dedurre dal passato le opinioni e le passioni del presente e propongono «una storiografia manipolata ad uso popolare, in cui le attuali idee nazionali e confessionali sono accolte ed esaltate senza riserva; i nostri libri di storia sono fonte inesauribile di menzogne storiche. (…) E’ naturale che una generazione educata da tali insegnanti non abbia una concezione elevata e pratica degli eventi»28. Schweitzer accusa ancora gli storici di dare fondamento storico agli eventi passati che non possono essere giustificati dalla ragione. In tal modo le idee e le convinzioni non razionali che essi propongono sono elevati a religione.

«Il nazionalismo, al quale si deve la tragica condizione esterna in cui si compie il declino della civiltà, è sorto appunto dal nostro senso della realtà e dal nostro senso storico. Cos’è il nazionalismo? E’ ignobile patriottismo, esasperato sino a perdere ogni significato; in rapporto al patriottismo nobile e sano, sta come l’idea fissa di un imbecille rispetto ad una convinzione normale»29, scrive il filosofo. Il nazionalismo si è sviluppato a partire dal diciannovesimo secolo quando l’idea di nazionalità è stata elevata a valido ideale di civiltà. L’idea di nazionalità si è poi trasformata con la decadenza della civiltà. «Infine il nazionalismo non si accontentò di mettere da parte, nella sfera politica, ogni tensione verso una società veramente civile: distrusse la stessa idea di civiltà e parlò di civiltà nazionale»30. Senza la guida degli ideali morali, ma solo degli “istinti” radicati nella realtà, le idee e le aspirazioni nazionali salvaguardavano solo i sentimenti delle masse. Continua Schweitzer: «Il nazionalismo non poggia tanto sui fatti quanto sulla forma che questi assumono nell’immaginazione delle masse; ciò è evidente dalla sua stessa condotta. (…) La sua Realpolitik è sopravvalutazione di alcune questioni relative a interessi territoriali ed economici, sopravvalutazione elevata a dogma, idealizzata e sorretta dalla passione popolare. (…) La Realpolitik, quindi, è politica irreale perché permette l’intervento della passione popolare che rende insolubili le questioni più semplici. Dispone in vetrina gli interessi economici e tiene in magazzino le idee di grandezza e di conquista proprie del nazionalismo»31. Queste idee sono emerse nel momento in cui tra le nazioni “civili” d’Europa, la lotta di predominio è diventata lotta per la civiltà nazionale. «Il volere una civiltà nazionale è sintomo morboso, significa che i popoli civili d’oggi hanno perduto la loro sana natura e non seguono più istinti, ma teorie»32. Il carattere di un popolo è tanto accentuato da farlo diventare «un artificio, una moda, un autoinganno, una mania. (…) Le nazioni moderne cercano mercati per la propria civiltà non meno che per i propri manufatti»33. In questo modo, le nazioni civili, nonostante le loro diverse strutture politiche e sociali, sono tutte sprofondate nella barbarie. Per uscirne non è sufficiente riformare le istituzioni della vita pubblica e sociale della nazione perché, continua Schweitzer, i progetti di riforma sono sempre diversi tra loro. Ad esempio: «Un gruppo espone un piano anti-democratico, un altro ritiene che gli errori derivino dal fatto che i principi democratici non sono ancora stati applicati con rigore, un altro ancora vede salvezza solo in una organizzazione socialista o comunista della società»34. Ogni gruppo politico crede che uno spirito nuovo possa sorgere da una nuova organizzazione della società; ma, per il filosofo, i valori spirituali non sono mai generati dai fatti imposti dall’esterno bensì dalla mentalità etica degli individui che compongono la società. Essa si mostra nella comprensione e nella fiducia reciproca e nella decisione degli individui di voler risolvere i problemi con la riflessione critica. «Lo Stato potrà riprendere le sue funzioni cui è chiamato soltanto se la critica nei suoi confronti verrà esercitata da molti. (…) La vera forza per lo Stato, così come per l’individuo, sta nella spiritualità e nell’etica. Uno Stato vive della fiducia di coloro che ne fanno parte e della fiducia degli altri Stati»35.

2.3 Il ripristino della civiltà

«L’unico modo di ricostruire il mondo è quello di trasformarci in uomini nuovi anche se sotto il peso delle vecchie circostanze, e poi, come società, di entrare in una disposizione di spirito che smussi i contrasti tra le nazioni e renda possibili le condizioni di una vera civiltà»36, scrive ancora Schweitzer in Agonia della civiltà. Contro la concezione pessimistica di coloro che denunciano la decadenza della civiltà per vecchiaia, il filosofo propone la sua concezione etica che ha fede nelle capacità dell’uomo di rinnovarla E contro gli storici che ritengono la rinascita della civiltà un’impresa impossibile egli afferma che dalla storia si può dedurre solo ciò che è stato non ciò che accadrà. Tuttavia il ripristino della civiltà richiede il coraggio di ammettere il suo declino per applicare poi alla situazione del tempo gli ideali che erano già un suo patrimonio.

Un tempo, ogni scienziato era anche un pensatore che indirizzava la vita spirituale della sua generazione. Ma ecco che «la nostra età è riuscita a separare sapere e pensiero con la conseguenza che abbiamo una scienza libera, ma non più una scienza che rifletta»37. Essa ritiene che solo l’accertamento dei fatti particolari sia di sua competenza. Prosegue Schweitzer: «Quello che può salvarci dalla barbarie è un movimento etico e i valori etici prendono radici solo nella personalità individuale»38, non nella mentalità collettiva. La civiltà dunque si riprenderà quando l’individuo si farà «persona indipendente nella superorganizzazione che lo tiene avvinto in mille modi. La collettività ricorrerà ad ogni espediente per mantenerlo in una condizione spersonalizzata; essa, infatti, teme la personalità perché in questa lo spirito e la verità trovano il mezzo di esprimersi. Sfortunatamente il potere della società è grande quanto la sua paura»39. La “tragica” alleanza tra la società e le condizioni materiali tendono a fare dell’uomo un essere privo di libertà, d’indipendenza, di raccoglimento interiore. L’individuo, al contrario, ha solo il suo senso critico per mettersi al servizio della verità e della vita. Solo in questo modo, egli può tentare di combattere la propaganda politica e le passioni nazionalistiche per mantenere la fiducia nello Stato civile e può sperare nella giustizia e nella moralità politica in un’epoca in cui «non solo le istituzioni, le associazioni laiche e religiose, ma gli stessi uomini cui si guarda come a guide continuamente ci deludono, quando gli artisti e gli studiosi si rivelano difensori di barbarie e persone che passano per pensatori, ed esteriormente si comportano come tali, in tempi di crisi si rivelano scrittori d’accademia»40.

Ogni epoca riceve le idee dai suoi pensatori; e coloro che detengono il comando, in alto o in basso, «possono portare a esecuzione solamente quanto è nel pensiero dell’età». Quindi, la civiltà progredisce se i pensatori diffondono, con “forte” ottimismo, le loro idee di progresso della civiltà che poggiano su una valida concezione circa la natura ed il fine del mondo. Ottimistica ed etica (razionale) è la concezione del mondo che afferma la vita come valore e educa l’individuo alla perfezione interiore suggerita dal principio dell’amore. Attingendo ad esso, le persone si sentono responsabili verso tutte le creature e agiscono di conseguenza. In caso contrario la civiltà crolla. Per questo, annota Schweitzer: «Anche se i nostri statisti fossero stati più lungimiranti, non avrebbero potuto evitare la catastrofe che ci ha colpito. Lo smarrimento interiore e il crollo esterno della civiltà erano già latenti nelle condizioni preparate dalla prevalente concezione del mondo; i governanti, grandi e piccoli, agirono secondo lo spirito dell’epoca. Il venir meno dell’influsso esercitato dall’Aufklärung, dal razionalismo e dalla grande filosofia del primo Ottocento, già preparava il terreno alla futura guerra mondiale, perché con esso si indebolivano quelle idee e convinzioni che avrebbero reso possibile una giusta soluzione delle controverse internazionali»41.

Ogni vero progresso della civiltà è sorretto dalla visione del mondo che ha nella ragione la forza per forgiare il perfezionamento morale del singolo e della collettività. Da qui ha origine la società civile frutto di vera umanità e l’operare dell’individuo volto a vagliare criticamente le sue esperienze alla ricerca del vero accordo tra cuore e ragione per il progresso sociale. Ciò che è vero per sé guiderà poi l’uomo verso l’altro per rispettare la sua stessa volontà di vivere. «Dovunque vedi vita, questa sei tu»42. Con questa guida interiore razionale, l’uomo può quindi promuovere la comprensione reciproca e migliorare le condizioni di vita propria e degli altri esseri viventi, della società, delle nazioni e dell’umanità; può costruire la pace e diffondere la giustizia economica.

«L’etica è lo sforzo volto ad assicurare l’interiore perfezione della personalità»43. Seguendola, l’uomo è capace di agire per il progresso generale ed il bene dell’umanità. La rinascita della civiltà è perciò legata alle capacità dell’individuo di progettare fini realizzabili solo rinnovando le sue idee mediante la riflessione sul significato della vita e di quella del mondo in cui vive. Tale riflessione personale è l’unica valida misura dei valori che formano una cultura etica universale il cui fine è rifiutare la guerra e promuovere la pace. «Gli ideali, nati da follia e da passione, di coloro che creano l’opinione pubblica e dirigono i pubblici eventi, non avrebbero più forza sugli uomini se questi cominciassero a riflettere sull’eterno e sul temporale, sull’esistenza e sulla morte e imparassero a distinguere tra vere e false misure, tra valori e disvalori»44

 3.      E. Cassirer

3.1 L’arte della divinazione di O. Spengler

Nel 1923, Agonia della civiltà, «prima parte di una completa filosofia della civiltà», è pubblicato dallo stesso editore del libro di O. Spengler Il tramonto dell’Occidente (1922). «Così lo conobbi – scrive Schweitzer - anziché combatterci a vicenda diventammo amici e come tali confrontammo le nostre posizioni sulla cultura». Per Spengler «la cultura occidentale era sorta, aveva avuto la sua fioritura ed era giunta alla fine per motivi esclusivamente storici. Questo modo tragico di affrontare l’argomento era in sintonia con lo spirito del tempo, successivo alla prima guerra mondiale. Spengler non aveva preso in esame la natura della cultura in generale, ma aveva descritto il destino storico di una cultura»45, annota Schweitzer.

Secondo Splenger, per sapere quale sarà il “destino” della civiltà (Kultur) bisogna prima di tutto definire che cosa sia una civiltà. Essa è “un organismo” vivente d’ordine superiore che sorge, fiorisce «in una magnifica assenza di fini, come i fiori di campo», declina e muore. «La logica del tempo» vuole che la civiltà occidentale sia già pervenuta alla fase della “civilizzazione” (Zivilisation), ossia alla piena fioritura, cui seguirà necessariamente la decadenza e la morte. Questo processo di declino, dice, si mostra nel «rovesciamento di tutti i valori» in atto nella civiltà occidentale. E’ quindi legato alla crisi della morale e della religione, delle arti e della filosofia, al prevalere della democrazia ed al trionfo del denaro sullo spirito. La civilizzazione «compimento e sbocco di una data civiltà»46 porterà alla barbarie da cui nascerà la prossima civiltà. Splenger propone quindi la dicotomia «Kultur» (civiltà) / «Zivilisation» (civilizzazione) per mostrare che questa porta in sé l’inevitabile “destino” di una civiltà. «Le civilizzazioni - dice - sono gli studi più esteriori e più artificiali di cui una specie umana superiore è capace. Esse rappresentano la fine, sono il divenuto che succede al divenire, la morte che segue alla vita, la fissità che segue all’evoluzione. (…) Esse rappresentano un termine, irrevocabile ma sempre raggiunto secondo una necessità interna da qualsiasi civiltà»47.

Schweitzer invece è dell’avviso che la distinzione tra i termini tedeschi “Kultur” (sviluppo spirituale e materiale dell’umanità) e “Zivilisation” (civiltà) intesa come «mero progresso materiale» e forma non etica di civiltà «serva a mascherare quest’ultima con un nome di dignità storica»48. A suo avviso, la distinzione di Spengler non ha giustificazioni filologiche o storiche tanto è vero che i tedeschi usano “Kultur” ed i francesi “civilisation” per indicare la civiltà.

Contrariamente a Splenger, Schweitzer ritiene che l’etica sia essenziale alla civiltà. Egli è convinto che il suo processo di decadimento si arresterà non appena ci sarà il risveglio spirituale degli individui, perché «non è la civiltà di una razza, ma quella dell’umanità, presente e futura, che dobbiamo ritenere perduta se è vana la fede nella rinascita della civiltà»49. Schweitzer combatte quindi la tesi di Splenger secondo la quale «l’umanità non ha alcuno scopo, alcuna idea, alcun piano, così come non lo ha la specie delle farfalle o quella delle orchidee. L’umanità è o un concetto zoologico o un vuoto nome»50.

«E’ il sistema delle attività umane a definire ed a determinare la sfera dell’umanità»51, dice Cassirer, nel Saggio sull’uomo. Queste varie forme d’attività simbolica si concordano e si armonizzano «nel fuoco del pensiero». Il mito, la religione, il linguaggio, l’arte, la storia e la scienza sono tutte produzioni del processo creativo individuale che mediano il rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo. Esse quindi hanno tracciato e segnano il cammino dell’umanità verso la cultura e la civiltà, perché l’uomo ha la capacità di conservare le forme spirituali della cultura e di rinnovarle progressivamente con la sua attività simbolica.

Cassirer è ancora d’accordo con Schweitzer che vede i sintomi del pessimismo, diffuso tra gli uomini dalla teoria di Splenger, nella “riammissione” del vaticinio e della superstizione anche negli ambienti colti. Secondo Cassirer, «La filosofia del destino» contenuta nell’opera Il tramonto dell’Occidente (1918) di O. Spengler appoggia indirettamente la “nuova arte della divinazione” propagandata dall’ideologia del tempo. Per Spengler, il sorgere ed il cadere della civiltà non dipendono dalle leggi della natura, ma sono determinate dal potere del destino. «Il destino non la causalità, è la forza motrice della storia umana. La nascita di un mondo culturale è sempre un atto mistico, un decreto del destino»52. Nelle parole di Spengler, Cassirer ravvisa tutti i caratteri del fatalismo, il più antico motivo mitico. Il suo libro, egli dice, è «un’astrologia della storia; l’opera di un indovino che narra le sue cupe previsioni apocalittiche». Spengler è un profeta del male che diffonde solo fatalismo contro il quale l’uomo non può fare nient’altro che accettare il tramonto dell’Occidente in “quieto” raccoglimento. E i capi politici dell’epoca interpretano “nel senso loro” la teoria pronosticando un mondo nuovo dopo la morte della cultura. Convinti di realizzare la profezia, essi «ispiravano ai loro aderenti le più esagerate speranze parlando loro della conquista del mondo da parte della razza germanica». Spengler è un conservatore non un seguace del movimento nazista, tuttavia la sua opera «diventò una delle opere anticipatrici del nazionalsocialismo»53.

Cassirer rileva ancora: «L’ideologia del nazionalsocialismo non è stata elaborata dai filosofi. Era cresciuta su un terreno completamente differente. Ma tra quel generale corso di idee che possiamo studiare nel caso di Splenger o Heidegger e la vita politica e sociale della Germania nel periodo successivo alla prima guerra mondiale esiste un nesso indiretto»54. La teoria di Splenger e di Heidegger hanno minato ed indebolito le forze critiche che invece avrebbero dovuto combattere il ritorno dei tabù, del vaticinio e del fatalismo nel mondo moderno. Nelle mani di «artefici abilissimi ed astuti» le previsioni circa il declino dell’Occidente e la distruzione della cultura di Splenger, la condizione dell’uomo “gettato” nella corrente del tempo e vincolato al tempo di Heidegger, la teoria dello Stato di Hegel, la teoria del culto degli eroi di Carlyle e quella del mito della razza di Gobineau si sono quindi trasformate in armi politiche. I politici hanno adattato queste idee accademiche alle circostanze dell’epoca perché un pubblico diverso ne subisse il fascino. Il momento storico per l’abile impiego di questa nuova tecnica politica era propizio. L’inflazione e la disoccupazione minacciavano il sistema sociale ed economico della Germania e, nelle situazioni difficili l’uomo ricorre sempre a mezzi disperati. «I miti politici dei nostri giorni sono stati altrettanti mezzi disperati di questo genere»55, sottolinea Cassirer. Il linguaggio emotivo, la potenza del miracoloso e del misterioso subentrano, infatti, al linguaggio della ragione quando questo perde la sua forza a causa delle difficoltà del vivere.

3.2 I miti politici

Cassirer scrive Il mito dello stato (1945) durante gli anni dell’esilio americano (1943/45). La storia del passaggio delle teorie mitiche dello Stato fino all’universalità e razionalità del pensiero politico di Rousseau e Kant e «La preponderanza del pensiero mitico sul pensiero razionale in alcuni nostri sistemi politici moderni» compongono il testo. Cassirer usa la teoria del mito per ripercorrere lo sviluppo della nozione di Stato ed indagare la vita sociale e politica del primo Novecento dove il mito (frutto dell’esperienza sociale dell’uomo primitivo) è riproposto come una nuova strategia politica per preparare l’avvento del nazismo. Per il filosofo, questo lucido programma politico è incominciato in Germania molto prima del 1933, anno in cui il mondo politico internazionale ha incominciato ad interessarsi del riarmo tedesco. «Il vero riarmo cominciò con l’inizio e con lo sviluppo dei miti politici. (…) Il riarmo militare non fu che la conseguenza inevitabile del riarmo mentale determinato dai miti politici»56. Questi hanno distrutto l’autonomia del volere e l’indipendenza dell’attività umana perché il mito della razza ha lavorato «come un potente corrosivo ed è riuscito a dissolvere ed a disintegrare tutti gli altri valori». La strategia di Cassirer di fronte al mito politico, «impervio alle argomentazioni razionali», è quella di comprendere la forza di questa nuova arma offensiva della dignità umana per non soggiacere ad essa. «Guardare in faccia l’avversario» significa per lui studiare l’origine, la struttura, i metodi e la tecnica dei miti politici per non sottovalutarli una seconda volta.

Che cos’è il mito? Nella storia della civiltà, il mito rappresenta lo stadio più primitivo della conoscenza. E’ l’espressione dell’emozione dei primi uomini davanti alla potenza della natura che «nulla concede senza cerimonie». Per questo, le immagini, le parole magiche, le formule, ecc., correlate ai riti, sono accettati da tutti i componenti del gruppo sociale e ripetuti con grande attenzione altrimenti: «La pioggia non cadrà, il grano non maturerà». La violazione delle norme collettive fissate dallo stregone, «attore nel teatro della natura», significa sventura per l’individuo e per l’intera comunità. Nella vita sociale e culturale primitiva, i miti rappresentano quindi i primi messaggi e le prime norme tribali della vita sociale.

Che cosa caratterizza il mito politico? La razionalità degli scopi. Nella prima metà del Novecento, il mito è «una combinazione artificiale fabbricata nel gran laboratorio della politica»57 dai capi politici che hanno operato deliberatamente con idee e ideologie per dominare la società. E’ l’arma usata dalla propaganda politica per incitare l’uomo all’odio razziale ed alla guerra intesa come «il vero ideale e l’unico elemento permanente nella vita pubblica e sociale dell’uomo»58.

Nell’età della tecnica, il mito politico è fabbricato secondo i piani della propaganda politica. «I miti sono manifatturati nello stesso senso e seguendo gli stessi metodi che si usano per qualunque altra arma moderna, come le mitragliatrici o gli aeroplani»59.

Nel ventesimo secolo, dunque, il mito non evoca più le imprese degli dei e degli eroi in un mondo di tabù, di forze e di potenze in conflitto, ma esso ha ancora il ruolo di suscitare emozioni attraverso i riti collettivi e le parole magiche dello stregone. Un tempo, costui conosceva i rimedi a tutti i mali degli uomini primitivi. Negli anni tra le due guerre, il capo politico diventa «l’appagatore di tutti i desideri collettivi. A lui si rivolgono tutte le speranze e tutte le paure» dell’uomo moderno. Il capo politico diventa «una specie di pubblico negromante», che sa interpretare le delusioni e le attese delle masse e può quindi rappresentarle. L’arte divinatoria salda quest’affinità di impulsi e di intenti tra il capo e la massa perché la profezia è «un elemento essenziale della nuova tecnica di governo». Nel mondo moderno, l’uomo politico è una mescolanza di homo magus dell’età della magia e di homo faber dell’età della tecnica. E’ «il sacerdote di una nuova religione del tutto irrazionale e misteriosa», che procede in modo metodico senza lasciare niente al caso. Egli riprende la mitica idea del millennio, ossia «del periodo in cui tutte le speranze saranno soddisfatte e tutti i mali cancellati», ma promette alla razza germanica non un “millennio” di pace, bensì di guerra per la vittoria del nazionalsocialismo. Inoltre: «Nel pandemonio mitico troviamo sempre spiriti maligni opposti agli spiriti benevoli. C’è sempre una rivolta, segreta o aperta, di Satana contro Dio. Nel pandemonio tedesco questo ruolo è stato assegnato all’ebreo»60. Così, la tradizione militaristica ed imperialistica tedesca è rispettata e l’ebreo è il “mitico” simbolo del nemico: è la “potenza demoniaca” su cui riversare ogni sorta di rancore e di odio personale e di classe. Perché l’ebreo? Per spezzare l’influenza esercitata dagli ebrei sulla vita economica, culturale e politica e perché, dice Cassirer, «nella storia dell’umanità erano stati i primi a negare ed a sfidare quelle stesse concezioni che formavano la base del nuovo Stato. Era stato, infatti, il giudaismo a compiere il primo passo decisivo che da una religione mitica aveva portato ad una religione etica»61 liberando l’uomo dal peso dei tabù e presentandosi come l’espressione di “un ideale nuovo e positivo” della libertà umana. Cassirer, rappresentante di quegli ideali etici, consegna, dunque, al tempo la propria riflessione politica incentrata sul mito come “impulso animatore” del nazismo e dell’antisemitismo.

3.3 Il peso della libertà

Il vero riarmo della Germania è cominciato con la trasformazione della mentalità individuale operata dai miti politici. A conferma della sua tesi, il filosofo riporta in una nota a piè di pagina 487 del testo Il mito dello stato un’intervista di un giornalista americano. «A un droghiere tedesco, che era abbastanza disposto a spiegare certe cose ad un ospite americano – riferisce Stephen Raushenbush – parlai della nostra sensazione che, nel rinunciare alla libertà, si fosse rinunciato a qualcosa di inapprezzabile. Egli rispose: “Ma voi non capite affatto come sta la cosa. Prima di questo, dovevamo preoccuparci delle elezioni, dei partiti e di votare. Avevamo delle responsabilità. Ma ora non abbiamo più niente di tutto ciò. Ora siamo liberi” ». Nei momenti di grave crisi economica e politica, i valori morali e civili scadono e l’uomo non ha più fiducia nelle proprie capacità di giudizio e di decisione. La libertà individuale e politica gli sembra un peso e si perde nella massa. «Qui entrano in gioco lo stato totalitario e i miti politici. I nuovi partiti politici promettono, quanto meno, un’evasione al dilemma. Essi sopprimono e distruggono il senso stesso della libertà; ma, al tempo stesso, alleggeriscono le spalle dell’uomo di ogni responsabilità personale»62. Secondo Cassirer, questa è la condizione spirituale creatasi in Germania, negli anni Venti e Trenta. La “preminenza” del pensiero mitico su quello razionale ha causato la disintegrazione dei valori etici e lo scetticismo dell’uomo verso il proprio pensiero, rendendolo ricettivo alla verità imposta dall’alto. Il mito diventa così una nuova arma di lotta politica ed uno strumento tecnico di mobilitazione delle masse perché: «I politici moderni sanno benissimo che le grandi moltitudini sono mosse più facilmente dalla forza dell’immaginazione che non dalla pura forza fisica»63.

La prima tecnica prodotta dall’incontro mito-politica è legata all’introduzione di alcuni neologismi nella lingua tedesca che hanno lo scopo di suscitare emozioni. Per illustrare questa tecnica, Cassirer porta ad esempio le parole “Siegfriede” (singolare) e “Siegerfriede” (plurale), entrambe composte da Sieg (vittoria) e Fried (pace). «Una Siegefriede è una pace dovuta alla vittoria tedesca; mentre una Siegerfriede significa esattamente il contrario». La sillaba in più denota una pace imposta dai vincitori alleati: un tutto non omogeneo, un miscuglio di razze diverse. «(...) Nell’udire queste parole sentiamo in esse tutta la gamma delle emozioni umane: dell’odio, dell’ira, del furore, dell’orgoglio, del disprezzo, dell’arroganza e dello sdegno»64. “I maestri” dell’arte della propaganda politica in Germania completano l’effetto emotivo compresso nelle parole “magiche” con i nuovi riti “regolari”, “rigorosi” e “inesorabili” che sono usati per promuovere l’azione di massa e “addormentare” tutte le forze attive. Ricorda il filosofo: «Nessuno poteva camminare per strada, nessuno poteva salutare il vicino o l’amico senza compiere un atto politico. E come nelle società primitive, la trascuratezza di uno dei riti prescritti significava sciagura o morte» così, in epoca moderna, ogni dimenticanza diventa «un delitto di alto tradimento contro l’onnipotente ed infallibile stato totalitario». Compiendo gli stessi riti prescritti, gli uomini cominciano a pensare ed a parlare tutti negli stessi modi ed a vivere in maniera artificiale e fittizia: «Il soggetto morale non è l’individuo, bensì il gruppo». La personalità e la responsabilità individuali sono soppresse. Gli uomini: «Agiscono come marionette su un palco e non sanno nemmeno che le corde di questa azione teatrale e di tutta quanta la vita individuale e sociale dell’uomo, da quel momento in avanti sono tirate dai capi politici»65.

In ogni tempo sono stati usati metodi di repressione politica, ma tali sistemi miravano a risultati materiali e lasciavano una sfera di libertà personale. Per esempio, Seneca ha scritto le opere morali al tempo di Nerone. I capi politici moderni invece si sono proposti di cambiare i sentimenti degli uomini regolando e controllando i loro atti. «I miti politici hanno agito nello stesso modo del serpente che cerca di paralizzare la propria vittima prima di attaccarla. Gli uomini sono caduti nelle loro mani senza nessuna seria resistenza. Sono stati vinti e soggiogati prima di aver compreso ciò che realmente era accaduto»66. Negli anni tra le due guerre, i miti politici sono stati perciò le armi “spirituali” che hanno sostituito i fucili ed i cannoni. «E’ la parola imperativa dei capi politici che li ha fatti nascere», ma la filosofia, in un certo senso, ne ha preparato il terreno non prendendosi cura degli eventi reali e non insegnando all’uomo come sviluppare il senso critico al fine di formare la sua vita individuale e sociale.

L’invenzione e l’uso “sapiente” dei miti politici, come strumento tecnico, ha così deciso la vittoria del movimento nazionalsocialista in Germania. «Gli avversari del nazionalsocialismo – dice Cassirer – avevano perduto ancor prima che la battaglia avesse inizio. E ciò perché nella lotta politica è sempre di vitale importanza conoscere l’avversario, penetrare i suoi modi di pensiero e di azione; ed i capi politici della Repubblica di Weimer erano impari a questo compito. Essi non compresero minimamente il carattere e la forza della nuova arma impiegata contro di loro. Nel loro modo di pensare sobrio, empirico, “tutto fatti” non ebbero occhi per la pericolosa forza esplosiva contenuta nei miti politici. Era pressoché impossibile persuaderli a prendere sul serio queste cose. In maggioranza erano marxisti convinti. Pensavano e parlavano in termini economici, persuasi com’erano che l’economia sia la molla della vita pubblica e la soluzione dei problemi sociali. Seguirono la loro teoria e non videro la questione reale; non compresero quale posta era in gioco. Non c’è dubbio che le condizioni economiche pesarono considerevolmente sull’evoluzione e sulla rapida crescita del movimento nazionalsocialista. Ma le cause più profonde e determinanti non vanno ricercate nella crisi economica che la Germania si trovò a subire. Esse appartengono ad un ambito diverso, che era in un certo senso inaccessibile ai capi socialisti. Quando costoro cominciarono a scorgere il pericolo, era troppo tardi: le forze dei miti politici erano diventate irresistibili»67. La nuova tecnica politica aveva già soffocato l’energia creativa, la dignità e la libertà delle persone tanto che costoro consideravano la libertà un peso. «La libertà non è un’eredità naturale dell’uomo. Per possederla dobbiamo cercarla»68, sentenzia Cassirer.

4. Sottolineature

4.1   Memoria e speranza

«Durante la guerra si giunse a controllare completamente il pensiero e la propaganda prese definitivamente il posto della verità»69, sottolinea Schweitzer. Sotto la pressione di tale arma politica, l’uomo ha perso la fiducia in se stesso e si è lasciato trascinare dalla massa. «E’ simile ad una palla di gomma che ha perduto elasticità e conserva ogni forma che le viene impressa».

Nell’articolo Filosofia e politica (1944) Cassirer scrive: «Due cose, secondo Schweitzer, sono responsabili di questa crisi. La prima è il predominio del nazionalismo; la seconda la schiacciante influenza di quello che egli descrive come lo “spirito collettivo”. (…) [E la filosofia] era diventata straniera al mondo ed ai suoi problemi di vita che concretamente occupavano l’uomo; e l’intero pensiero contemporaneo non prendeva parte alcuna nelle attività della sua epoca. (…) Nell’ora del pericolo il guardiano che avrebbe dovuto tenerci svegli dormiva, cosicché noi non opponemmo resistenza alcuna»70. L’accusa di Schweitzer alla filosofia non è infondata sostiene Cassirer. Negli anni tra le due guerre, infatti, la sua voce non solo non si è fatta sentire, ma la filosofia ha giocato un ruolo nuovo: ha fornito ai politici le armi “spirituali” che hanno completato le armi materiali. Filosofi, etnologi e sociologi pensavano che la cultura si fosse lasciata alle spalle l’età mitica. Invece, il mito è diventato la nuova arma politica prodotta a piacimento «nel grande laboratorio della politica». Contro il mito della razza ed i metodi adottati dalla propaganda antiebraica tedesca, Cassirer ricorda che «Le vittime di quest’ordàlia non possono essere dimenticate». Tuttavia, il filosofo è convinto che tutti quei sacrifici non siano stati inutili. «Ciò che l’ebreo moderno doveva difendere in questa battaglia non era soltanto la sua esistenza fisica, o la conservazione della razza ebraica. La posta in gioco era molto più alta. Noi dovevamo rappresentare tutti quegli ideali etici che, generati dal giudaismo, erano divenuti patrimonio generale della cultura umana, della vita di tutte le nazioni. E qui la nostra certezza è salda. Questi ideali non sono stati distrutti, né possono esserlo»71. Il giudaismo ha contribuito a spezzare il potere dei miti politici moderni.

In quei tempi di guerra, Cassirer segue l’imperativo socratico del «conosci te stesso» e aiuta l’uomo a ritrovarsi come animale simbolico, soggetto creatore e fruitore di cultura. L’uomo è se stesso solo quando libera la creatività e, distaccandosi dalla sua finitezza, trasforma l’esperienza immediata nelle forme simboliche del mito, della religione, del linguaggio, dell’arte, della storia e della scienza. L’uomo dunque non è solo un animale razionale, è anche un «animale mitico». Il mito fa parte della cultura umana ed è sempre presente anche se in forme diverse. Da questa tesi emerge che lo sviluppo della civiltà è legato al raffinamento dell’attività simbolica che dalle primitive espressioni del mito raggiunge i più alti gradi della razionalità nell’attività scientifica. Negli anni Venti e Trenta, utilizzare le forme del mito ha significato far regredire la civiltà allo stadio primitivo.

Cassirer vede la cultura come “il compimento” della vita, come un’attività di progressiva autoliberazione dell’uomo dai vincoli dell’animalità e dell’ignoranza; perciò «la liberazione dello spirito umano è il fine autentico e ultimo di ogni educazione» intesa come sviluppo della personalità individuale alla luce dei cambiamenti sociali. Egli ha messo così in evidenza che il pensiero simbolico è lo strumento costruttore del mondo della cultura ed il possibile realizzatore dell’unità degli uomini, attraverso la consapevolezza della loro umanità. Mostrare l’interiore umanità, insita nelle “opere” dello spirito, è l’imperativo per tutti coloro che mirano alla «liberazione di sé mediante il sapere» nella quale consiste la dignità ed il valore dell’uomo. “Agisci!” comanda Kant. Per trasformare «l’animalità nostra in umanità» e renderci degni della felicità. L’umanità, dunque, è l’essenza dell’uomo simbolico; è il fondamento per la formazione d’ogni personalità.

«C’è etica soltanto dove c’è umanità, cioè dove l’esistenza e la felicità di ogni singolo essere umano sono rispettate. (…) Quindi la cultura non è l’immagine di un’evoluzione del mondo, ma un’esperienza della volontà di vita che è in noi stessi»72, dice Schweitzer. La cultura è una “totalità” che unisce gli uomini se costoro vagliano criticamente l’esperienza alla ricerca della verità, non se diventa un patrimonio di idee e conoscenze in sé concluso. In questo caso essa divide gli uomini e sconfigge il senso critico che li contraddistingue. Producendo cultura l’uomo si è costruito un “secondo” mondo, il mondo dello spirito, attraverso il quale è possibile costruire una nuova umanità con la guida etica della filosofia.

Scrive Schweitzer: «Cartesio fa iniziare il pensiero dalla frase: “Cogito ergo sum”. (…) Pensare significa pensare qualcosa. Il fatto più immediato della coscienza dell’uomo è: “Sono vita che vuol vivere, in mezzo a vita che vuol vivere” (…) Nella mia volontà di vita ci sono la brama della sopravvivenza e quella misteriosa esaltazione della volontà di vita che si chiama piacere, e la paura dell’annientamento e di quella misteriosa menomazione della volontà di vita che si chiama dolore: la stessa brama e la stessa paura ci sono nella volontà di vita che mi circonda, sia che possa esprimersi sia che rimanga muta»73. Per la mistica etica, ogni conoscenza ha valore perché tutte le ricerche e scoperte scientifiche non possono far altro che approfondire il mistero della volontà di vivere del creato. Se quindi ogni uomo ritiene etico che tutte le volontà di vita debbano essere rispettate sa che cosa lo unisce agli altri uomini. Rendendosi conto della verità delle sue convinzioni, circa la vita e la natura del bene (pace) e del male (guerra), l’uomo si assume la responsabilità di condividerle con gli altri. Ed agisce di conseguenza. Ha aperto questa s