Lord Acton

 

Il Pensiero

Libertà e società, un binomio che lo storico inglese seppe fondere in una visione che teneva conto del diritto di proprietà, ma anche dei diritti dei più deboli

 

Lord Acton, liberale e paladino dei poveri

Un'antologia dei suoi scritti esalta la sua mentalità solidale.Nel medioevo vide un'epoca di grande apertura e nell'età moderna il terreno che alimentò l'assolutismo

di Dario Antiseri

«La mia storia è quella di un uomo che ha iniziato da cattolico sincero e sincero liberale; che quindi ha rinunciato a tutto quello che nel cattolicesimo non era compatibile con la libertà, e a tutto quello che in politica non era compatibile con la cattolicità». Questo scrive di se stesso Lord Acton (1834-1902), il più significativo rappresentante del cattolicesimo liberale inglese - le cui idee di fondo vengono ora antologizzate e prefate da Massimo Baldini nel volume Il liberalismo etico, edito da Armando.
Liberale attento ai diritti di proprietà, Acton non ignorò affatto i diritti della povertà, e ciò per la precisa ragione che «ostacoli alla libertà sono non solo le oppressioni politiche e sociali, ma anche le povertà e l'ignoranza». In ogni caso, il nucleo centrale del pensiero di Acton sta nell'idea che la coscienza ha il diritto di giudicare l'autorità. «La libertà è il regno della coscienza». «In fondo tutta la libertà consiste nel preservare la sfera interna dall'invadenza del potere statale. Questo rispetto per la coscienza è il seme di ogni libertà civile e il modo in cui il cristianesimo è stato al suo servizio». In realtà - scrive sempre Acton - «quando Cristo disse: "Sia dato a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio", quelle parole, pronunciate durante la sua ultima visita al Tempio, tre giorni prima della morte, diedero al potere civile, sotto la protezione della coscienza, una sacralità della quale esso non aveva mai goduto in precedenza e limiti che esso non aveva mai riconosciuto; esse segnarono il rifiuto dell'assolutismo e l'insediamento della libertà. Infatti nostro Signore non si limita a enunciare il precetto, ma creò anche la forza per renderlo effettivo». Il cristianesimo - ha affermato Benedetto Croce - è stata «la più grande rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuto», e questo per la ragione che «la rivoluzione cristiana operò nel centro dell'anima, nella coscienza morale e conferendo risalto all'intimo e proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino ad allora era mancata all'umanità». Con il cristianesimo viene al mondo l'idea di uomo come persona: persona libera, creativa, responsabile, con una coscienza inviolabile. E il valore sacro della persona, di un uomo fatto ad immagine e somiglianza di Dio implica e trascina con sé la desacralizzazione, il ridimensionamento, la relativizzazione del potere dello Stato. Da simili prospettiva il cristianesimo è stato l'evento politico più importante dell'Occidente: per decreto religioso lo Stato non è tutto. E' così che, se, a differenza che in altre attività, la teocrazia non fa parte al destino dell'Occidente, questo lo si deve al cristianesimo. «La libertà - dice Acton - non è esistita fuori dal cristianesimo». È stato, infatti, il cristianesimo ad insegnare «la prima delle libertà» che è, appunto, la libertà di coscienza. Ma non va sottaciuto che la libertà «non è originaria e necessaria», non è un prodotto della natura, quanto piuttosto il frutto prezioso e delicato di una civiltà matura: «non è un dono, ma una conquista». Di conseguenza, più che sul diritto alla libertà Acton insiste sul dovere della libertà, nella persuasione che «si può rinunciare a un diritto, ma non a un dovere». In fondo, la libertà sarebbe «meno sicura come diritto che come obbligo morale».
Guardando al passato, Acton, da storico qual era, vede che, in ogni epoca, la libertà ha avuto pochi sinceri amici, molti perfidi amici, moltissimi nemici naturali - e tra questi ultimi egli annovera: «l'ignoranza e la superstizione, la brama di conquista e l'amore per le comodità, il desiderio di potere dei ricchi, e la fame dei poveri». Amici sinceri della libertà: Solone, Socrate, Seneca, Cicerone; tra i cristiani: Atanasio, Ambrogio ed Origene; e poi, soprattutto, san Tommaso d'Aquino, il "primo whig". «La libertà deve essere conquistata - scrive Acton -. Questa è la teoria medioevale. Non sei libero, se non provi il tuo diritto a esserlo. La libertà è medioevale, l'assolutismo è moderno». Nemici della libertà: Diogene di Sinope, Protagora, Crizia, Platone; in seguito: Hobbes e Spinoza; Machiavelli e Rousseau al quale si deve la nefasta «dottrina della infallibilità del popolo»; le idee del 1789 che «sono radicalmente opposte alla libertà e alla religione»; il socialismo. A più riprese Acton si schiera contro il socialismo giacché che «il socialismo acconsente facilmente al dispotismo; ha bisogno di un potere fortissimo, un potere in grado di interferire con la proprietà». E tuttavia la questione sociale ha costituito per Acton una preoccupazione continua: «La povertà ha i suoi diritti quanto la proprietà», per cui «se in un mercato aperto deve esserci la libera contrattazione tra capitale e lavoro, non è giusto che una delle due parti contraenti debba avere esclusivamente nelle proprie mani il controllo delle leggi, la gestione delle condizioni, il mantenimento della pace, l'amministrazione della giustizia, la distribuzione delle tasse e il controllo delle spese. È ingiusto che tutte le garanzie e tutti i vantaggi sono appannaggio di una sola parte […] La giustizia richiede alla libertà non già di abdicare alla sua supremazia politica, ma di condividerla. Sensata questa spartizione, la libera contrattazione è tanto illusoria quanto un duello ad armi pari in cui un solo contendente fornisce i padrini, le armi e le munizioni». Quello di Acton, insomma, è un liberalismo sociale attento agli ultimi, volto alla difesa «del bambino storpio e della vittima di circostanze accidentali, dell'idiota e del pazzo, del miserabile e del reo, del vecchio e dell'ammalato, del curabile e dell'incurabile»: una «liberalità verso i deboli, nella vita sociale, che corrisponde a quel rispetto per le minoranze che nella vita politica rappresenta l'essenza della libertà». (Pubblicato in “Avvenire”, 24 marzo 2007)

Lord Acton, Il liberalismo etico, a cura di Massimo Baldini, Armando Editore, Roma 2006.
Armando. Pagine 126. Euro 12,00

 

Il liberalismo etico di Lord Acton

di Flavio Felice

Da qualche mese è disponibile nelle libreria italiane una preziosissima raccolta di pensieri e di aforismi di uno dei maggiori interpreti del cattolicesimo liberale del diciannovesimo secolo: Lord Acton, brillante intellettuale dell’Inghilterra di fine Ottocento, è noto per la sua imponente e mai conclusa opera sulla storia della libertà. Di quel monumentale progetto editoriale sono giunti fino a noi frammenti e saggi di grande interesse, a partire dai quali si scorgono l’ampiezza e la rilevanza storiografica che caratterizzano l’opera del nostro autore. La raccolta introdotta e curata dal prof. Massimo Baldini appare preziosa intanto in quanto svela al pubblico italiano un autore forse ancora troppo ignorato, ma anche perché, in forza della sapiente cura con la quale sono stati selezionati e composti i pensieri e gli aforismi di Acton dal curaotre, chi non si occupa di storia professionalmente ha la possibilità di accedere agilmente alle questioni più significative e profonde affrontate dall’autore inglese. L’indice del volume mostra immediatamente la ricchezza di questo contributo e l’utilità ai fini della ricerca e della divulgazione del pensiero actoniano.

Acton perseguirà per tutta la vita (Napoli 1834 – Tegernsee 1902) la possibilità di avviare un fecondo confronto con quella componente del liberalismo che, rinunciando agli eccessi di razionalismo, utilitarismo e materialismo, ha evidenziato la contiguità delle proprie posizioni con quelle tipiche del pensiero occidentale ed in particolar modo con la tradizione ebraico-cristiana: “La mia storia è quella di un uomo che ha iniziato credendosi un cattolico sincero e un sincero liberale; che quindi ha rinunciato a tutto quello nel cattolicesimo che non era compatibile con la libertà, e a tutto quello che in politica che non era compatibile con la cattolicità”. Una preziosa testimonianza a favore della sfida lanciata dal nostro autore ci viene offerta da Friedrich August von Hayek. L’economista austriaco, nel ripercorrere le tappe salienti della lunga marcia del pensiero liberale nella storia dell’umanità, proprio sulla scia di Lord Acton, definisce l’Aquinate “il primo Whig” - il fondatore del partito della libertà - e, in ordine alla predisposizione di un’indagine sulle prime scuole politiche che formularono il principio del “rule of law” e di autogoverno della comunità - ovvero il progetto della società civile o il civic republicanism, caro ai Padri fondatori degli Stati Uniti d’America e fonte sostanziale del cristiano principio di sussidiarietà - (civitas sibi princeps), rimanda allo studio dei pensatori medievali Niccolò da Cusa e Bartolo da Sassoferrato: “Ma, sotto un certo aspetto la definizione di Lord Acton secondo cui il primo Whig sarebbe stato Tommaso d’Aquino non è poi così paradossale [...]. Uno studio più attento dovrebbe occuparsi soprattutto di Niccolò da Cusa e Bartolo da Sassoferrato che continuarono la tradizione nel XIII e nel XIV secolo”.

Da questo punto di vista Lord Acton ha contribuito come pochi alla definizione di una nozione di libertà eticamente intesa, di qui la felice espressione:  “liberalismo etico”, coniata dal curatore del libro Baldini. Il ruolo della provvidenza nella storia, riteneva Acton, era l’espansione della libertà umana, ed il fulcro di tale processo o cammino fu la nascita e lo sviluppo del Cristianesimo, al punto da affermare: “Al di fuori del Cristianesimo non vi è libertà”, poiché la coscienza, intesa come recta ratio, ossia la ragione correttamente regolata e non arbitraria o abbandonata a se stessa, è il perno intorno al quale ruotano le istituzioni fondate sul Cristianesimo. Lo storico cattolico inglese, sulla scia di Cicerone, San Tommaso e Montesquieu, era solito affermare che libero non è colui che fa ciò che vuole, ma colui che è nella possibilità di fare ciò che deve. La libertà così intesa si esalta nella pratica delle virtù, ossia nell'adesione ad una serie di principi orientati al bene, incontrati, conosciuti e testimoniati come veri. È sintomatico che un liberale come Acton abbia indicato proprio nel dovere, e in special modo nella pratica religiosa, la fonte delle libertà civili: “nessun Paese può essere libero senza religione. Essa crea e rafforza il concetto di dovere. Se non contribuisce l’idea di un "dovere" morale a mantenere un ordine fra gli uomini, sarà la paura a farlo”. Lo storico di Cambridge non sembra ignorare le difficoltà che il processo di autentica liberazione umana ha incontrato nel corso della storia e non si illude su quelle che incontrerà in futuro. In Acton la libertà appare come l'esito fragile di un lungo ed incessante processo, un itinerario che tuttavia non è progressivo e lineare. Volgendoci indietro con lo sguardo, non possiamo fingere di non scorgere le pagine più nere dell'umanità, momenti nei quali la dignità dell'uomo è stata calpestata e il trionfo del male e della menzogna appariva inevitabile. Il giudizio non muta se guardiamo lontano, oltre la linea dell'orizzonte temporale. Ebbene, anche in questo caso, se non vogliamo compromettere il cammino verso la libertà, non dobbiamo illuderci, è necessario spendere tutte le nostre energie, affinché le sfide che ci attendono non ci trovino impreparati. Lord Acton esprime nel modo seguente la sua ansia di sincero cattolico e di autentico liberale: “[La libertà è] il frutto delicato di una civilizzazione matura: in ogni epoca, il suo progresso è stato ostacolato dai suoi nemici naturali, l’ignoranza e la superstizione, dalla sete di conquista e dall’amore per le cose facili, dal fatto che l’uomo forte agognasse il potere, dal fatto che il povero brigasse per il cibo. Durante lunghi intervalli il cammino della libertà s’è drammaticamente arrestato [...] E in tutti i tempi gli amici sinceri della libertà sono stati rari”.

Il liberalismo di Acton si definisce a partire da una nozione di libertà fortemente ancorata al principio di responsabilità: “Se la felicità è il fine della società, allora la libertà è superflua in quanto non serve a rendere gli uomini felici. La libertà guarda infatti al mondo ultraterreno: alla sfera del dovere, non a quella dei diritti. La libertà è sofferenza, sacrificio per una ricompensa che ci attende in una vita diversa da questa. Se dopo questa vita non ci fosse altro, non ci sarebbe nulla per cui sacrificarci”. Con questo brano Acton intende chiarire il suo punto di vista sul problema della libertà, fondandola sul rispetto della legge; essa non è libertà dalla legge, bensì libertà sotto la legge: l’uomo libero è colui che può fare ciò che deve, e non colui che fa meramente ciò che vuole. Solo esercitando continuamente questa libertà le società libere possono rimanere tali. La libertà autentica comporta delle responsabilità. La libertà così intesa è molto simile alla saggezza pratica di Aristotele, la quale è recta ratio e non è un caso che sia significativamente espressa dal popolare inno americano: “Rendi saldo il tuo spirito nell’autocontrollo / La tua libertà nella legge”. La libertà indica, allora, il momento della deliberazione, ossia la ricerca pratica orientata dal fine e volto alla percezione e scelta (proponimento) del mezzo più adatto per il conseguimento del fine qui ed ora. La traduzione visiva di questa particolare concezione della libertà, afferma Michael Novak, è offerta dalla Statua della Libertà: la libertà è una signora (la saggezza) che alza con una mano il lume della ragione e nell’altra tiene il libro della legge. Una tale etica della responsabilità è tipica di quelle società ispirate dalla cultura ebraico-cristiana, fondate sulla divisione dei poteri e sulla tripartizione delle sfere di intervento concreto nella vita sociale: politica, economica, cultura.

Lord Acton, Il liberalismo etico, introduzione di Massimo Baldini, Armando Editore, Roma 2006, pp. 125.

 

Religione e politica: Lord Acton

di Rocco Pezzimenti

La storia, vista dal punto di vista cristiano, costituisce un processo mai pago di sé. La novità cristiana, sotto il profilo storico, è data proprio da questo perenne impulso al miglioramento, sempre presente perché Dio stesso, che si rivela in ogni momento, anche e non solo attraverso la storia, fa in modo che l’uomo non sia mai completamente appagato e, quindi, porta con sé una scontentezza che lo spinge ad andare sempre oltre nella ricerca di una perfezione che la storia non gli darà mai. La storia, con tutte le vicende politiche, diviene filosofia della storia con esiti sicuramente metastorici per noi sconosciuti ed inimmaginabili. Si capisce così perché Acton abbia giudicato Sant’Agostino colui che ha esercitato «the deepest influence of one mind in the Church» (Fasnacht, APP, 144) per aver elaborato una prima filosofia della storia e l’Aquinate per aver sostenuto essere diritto divino dei popoli eleggere e destituire i sovrani e per questo «devised Whiggism to prop religious absolutism» (Fasnacht, APP, 144) e arrivò a fondare la libertà politica sulla libertà di coscienza. Questa scoperta troverà la massima evidenza in Tocqueville che nella coscienza religiosa vede uno dei pilastri della libertà e che, solo grazie ad una coscienza religiosa ben radicata, vede tale libertà capace di difendersi dalla «onnipotence of a majority». Tocqueville è anche ammirato perché sembra quasi aver sostenuto che la «liberty too, must be limited in order to be possessed» (Mathew, 93). Il venire meno dei limiti della libertà equivale al venir meno della libertà stessa. Quello del senso, anche legale, del “limite” è uno dei grandi insegnamenti della tradizione cristiana di cui né la filosofia e né la politica moderna possono fare a meno.

Lord John E. E. Acton nato a Napoli nel 1834 può essere definito un vero intellettuale europeo per formazione e per cultura. Grazie alle diverse parentele della sua famiglia parlava e leggeva in varie lingue, in inglese con suo figlio, in tedesco con sua moglie nata in Baviera, in francese con sua cognata e in italiano con sua suocera. Tutto ciò gli consentì di leggere negli originali testi di varie discipline e di conoscere le personalità più in vista del cattolicesimo europeo, in Francia Mons. F. Dupanloup, in Inghilterra Wiseman e in Germania J. I. von Döllinger. Ebbe anche amici come Simpson e Capes che, agli occhi degli old Cathoics, apparivano come i rappresentanti della Catholic Left. Conobbe e collaborò con personalità come Newman. Viaggiò molto in Europa e oltre oceano. Collaborò ad alcune riviste, come The Rambler e The Home and Foreign Review, presso le quali ebbe anche incarichi di responsabilità. Per molti anni circolò negli ambienti culturali la voce che Acton stava elaborando una specie di magnum opus dalle dimensioni quasi universali, una sorta di evoluzione dell’umanità sotto forma di The History of Liberty, definita da alcuni “il più celebre libro non scritto”. Per quest’opera vennero raccolti materiali dei più svariati periodi e furono scritti anche singoli saggi che uscirono in varie raccolte dopo la sua morte avvenuta a Tegernsee nel 1902.

Per Acton si doveva attuare una riconciliazione tra democrazia e religione e ci si doveva rendere conto che solo le nazioni dotate di autentico spirito religioso erano capaci di autogovernarsi ed erano adatte alla libertà. Senza questa capacità di autogoverno, chi era capace di evitare i pericoli della centralizzazione verso la quale tende ogni democrazia che non riesce ad evitare la sua degenerazione? (cf. Fasnacht, APP, 197). Per questo, avere fiducia nella storia, intesa come itinerario sempre aperto e capace di miglioramento, non deve crearci l’illusione che qualunque soluzione storica produca un perfezionamento quasi che una hegeliana astuzia della ragione consenta, alla fine, che tutto rientri in una logica predeterminata. Per Acton, Hegel rimaneva il più serio fra tutti i nemici della religione perché ragionava non solo in termini astratti, ma anche deterministici e perché non riconosceva la vera natura della religione che sacrificava entro una sterile rigorosità. Inoltre la dialettica, toglieva alla storia ogni possibile prospettiva metafisica finendo col generare nell’uomo un vuoto e un pessimismo senza via d’uscita. Dall’interesse per la storia nasce, in Acton, il convincimento che il binomio liberalismo-democrazia vivificato dal cattolicesimo costituisce l’esito naturale della storia occidentale. Naturale ma non scontato: infatti, se l’elemento democratico rischiava di soffocare quello liberale, con questo veniva meno anche l’anelito religioso nella dimensione politica. Da qui un interrogativo di non poco conto: «Come salvare nella nuova società, in cui tanto si fanno sentire le esigenze democratiche, un elemento di libertà?» (Alatri, L). Per rispondere bisogna tenere presente che quello di Acton può definirsi un “liberalismo storico” fondato cioè sulla tradizione e che quindi, assieme alla libertà, vuole difendere, dalle emergenti logiche rivoluzionarie, tutte quelle garanzie che essa ha faticosamente conquistato attraverso il tempo. Ciò spiega anche perché soprattutto il cristianesimo ha il compito di salvaguardare quella sfera della libertà interiore dalla quale discendono tutte le altre libertà (cf. Gasquet, 254). Ne consegue sul piano pratico l’assoluta divisione tra Stato e Chiesa. Il loro storico contrasto è stato dovuto al fatto che nessuna delle due strutture ha voluto lasciare l’individuo in balia dell’altra. Quando non si opera la rigorosa distinzione è quasi impossibile evitare assolutismi di vario genere (cf. Acton, HFOE, 205).

Quando Acton parla di Christian democracy tende ad opporsi a due diversi tipi di democrazia entrambi pericolosi per la libertà. Da una parte combatte quelle che il nostro secolo ha definito democrazie popolari che, per loro natura, tendono a diventare onnipotenti e sclerotiche. Dall’altra quella sorta di democracy of the Caesar, cioè quelle democrazie populiste che si erano manifestate, ad esempio, in Francia. Poco importa se le une fossero frutto di ideali rivoluzionari e le altre di intenti controrivoluzionari, entrambe finivano per soffocare gli aneliti individuali. Se la Christian democracy si fondava sul concetto di responsabilità, le altre, paradossalmente, rendevano l’individuo di fatto irresponsabile. L’anonimato delle strutture, della collettività o della nazione finivano per soffocare le responsabilità personali e, di fatto, soffocavano ogni forma di autentico liberalismo (cf. il mio lavoro su Acton, 193-4). Questo può sopravvivere solo in una Christian democracy in quanto non c’è liberalismo che non possa dirsi cristiano, perché la prima e più importante libertà è quella di coscienza e, su questa, si costruiscono tutte le altre. Le forme estreme di democrazia avevano un difetto, prima ancora che politico, culturale. Seguivano filosofie che, analizzando la storia, esaminavano solo i fatti trascurando la loro interiorità. Quest’ultima costituisce l’elemento che lega le diverse vicende storiche tra loro, altrimenti si ridurrebbero a pure accidentalità come nell’ottica positivista e illuminista. Posizioni entrambe incapaci di considerare gli sforzi morali degli individui, in quanto la pura fattualità non considera le tensioni interiori e il prezzo dei superamenti. Lo stesso consenso, vero presupposto del liberalismo, era stato frainteso. La sua necessità è stata infatti evidenziata da tutti quei pensatori che, pur ignorando ancora una politica liberale, avevano comunque a cuore la libertà. Si può risalire a Cicerone passando per tutti i teorici medioevali sino ad arrivare a Locke, Jefferson, Hamilton e Mill. Senza consenso persino le leggi sono invalide.

Parlando di “limiti”, oltre a quelli derivanti dalla tradizione, vi sono anche quelli che potremmo definire istituzionali. Tra questi, quello che sembra riuscire meglio a impedire la tirannia della maggioranza, è il federalismo. Acton, che mutua questa riflessione da Tocqueville, considera il federalismo una limitazione non solo delle degenerazioni democratiche, ma anche contro le assurdità di un nazionalismo che si andava facendo sempre più minaccioso. Lapidario è, al riguardo, lo storico inglese: «Il vero naturale freno per una democrazia assoluta è il sistema federale, che limita il governo centrale attraverso poteri riservati, ed i governi statali attraverso i poteri che essi hanno ceduto. Questo è l’immortale tributo dell’America alla scienza politica» (Acton, ELIH, 393). Il federalismo anche è uno dei frutti più maturi del cristianesimo che, già nel medio evo, ispirò tutte quelle autonomie locali, comuni e repubbliche marinare, che sono alla base delle libertà moderne. Per questo l’idea federalista non poteva venire dall’Asia, continente toccato solo marginalmente dal cristianesimo. Si sviluppa invece negli Stati Uniti che sono la logica e migliore prosecuzione della storia europea che, nell’età moderna, aveva perso la sua linearità mettendo spesso in crisi le conquiste della libertà. Da qui la definizione del Federalist come il testo fondamentale della Conservative Democracy. Nell’aggettivo Conservative, che non è da intendersi nell’odierno uso partitico, sono presenti tutte quelle fondamentali caratteristiche che, non solo fondano una democrazia, ma che la difendono, la preservano dai pericoli, insomma la “conservano”. Ma nel Federalist è presente un’altra grande convinzione di Acton: «C’è il rifiuto della democrazia egualitaria e la convinzione profonda che solamente la democrazia repubblicana, che media la volontà popolare grazie al sistema rappresentativo, è in grado di garantire la libertà civile, religiosa e politica come gli interessi dei singoli e della comunità» (D’Addio-Negri, 24). Il federalismo rappresenta poi un freno anche nei confronti di un nascente pericolo insito negli stati moderni: il nazionalismo. Acton, non ignorava le giuste aspirazioni unitarie di alcuni popoli, ma arrivava a distinguere tra nazionalità e nazionalismo, giungendo a preconizzare come potesse uno Stato nazionale dar luogo a in una politica nazionalistica basata sulla forza e sulla centralizzazione. Ciò spiega perché da una parte abbia ammirato, per alcuni aspetti, uno Stato plurinazionale come quello austriaco e dall’altra abbia biasimato la politica nazionalistica prussiana (cf. Mathew, 77). Certamente anche un fenomeno come quello delle unità nazionali non portava in sé unicamente effetti negativi. Fu anzi capace di rimediare ad una serie di clamorosi errori commessi dalle grandi monarchie europee. Si pensi ad esempio al caso polacco. «La spartizione della Polonia era un atto di cinica violenza (...) Per la prima volta nella storia moderna un grande Stato veniva soppresso, e un’intera nazione veniva divisa tra i suoi nemici» (Acton, EFP, 146). Da fatti di questo genere si destò il sentimento nazionale che, se si mantenesse entro giusti limiti, sarebbe una legittima rivendicazione.

Perché Acton si preoccupa tanto dei limiti? Perché la crisi di una civiltà è sempre dovuta al venir meno dei suoi limiti, da cui deriva la crisi della razionalità e lo sfrenarsi degli istinti. In tali frangenti la vita politica è dominata da un paradosso: tutte le energie si concentrano sulle necessità del momento e, alle contingenze, finisce per essere sacrificato tutto, persino la libertà e le forme più elementari di giustizia. Chi è che deve mantenere la democrazia entro i suoi giusti limiti per evitare le sue pericolose degenerazioni? Secondo Acton questo compito spetta alla classe media, quella che in Francia si ispirò ai principi liberali e cercò poi di contenere le smanie della democrazia “populista”. Non vi riuscì perché si servì delle classi inferiori per abbattere l’aristocrazia incoraggiando, così, i sogni egualitari del popolo. Questo, una volta soppressa la nobiltà, non accettò che la borghesia stabilisse una nuova forma di ineguaglianza a proprio favore e pensò di combattere quella borghesia che non aveva mantenuto le proprie promesse.

Può sembrare strano ma Acton pensava che in futuro il socialismo, nato dagli ideali democratici, sarebbe potuto sopravvivere, come la democrazia, recuperando alcuni presupposti fondamentali del liberalismo. Il socialismo, quantunque pericoloso quando si presenta come una nuova religione al punto di presentare una nuova Weltanschauung, è un fenomeno troppo importante per venire ignorato. Acton è un attento lettore di alcune opere di Marx ed Engels. La sua copia di Per una critica dell’economia politica di Marx, lasciata all’Università di Cambridge, risulta annotata con grande attenzione. Il Capitale viene considerata un’opera avvincente e determinante al punto che lo storico inglese ne consiglia la lettura allo stesso Gladstone e resta meravigliato quando questi risponde di non avere tempo di leggerla (cf. Fasnacht, APP, 117). Definirà Il Capitale una sorta di Corano dei nuovi socialisti (cf. Fasnacht, FS, 21). Definizione che, se da una parte esprime la forza e la novità del marxismo, dall’altra ne lascia sottintendere i pericoli. Acton sembra dire che ci si trova davanti a una specie di religione mascherata, dove non c’è distinzione tra Stato e Chiesa, e dove l’individuo viene schiacciato dalla totalità. Resta però il fatto che Marx è il portavoce di un nuovo messaggio di “liberazione” con intenti soprattutto pratici. La pericolosità del marxismo non deriva dai suoi intenti, ma dal suo metodo. Acton accomuna i seguaci dell’hegelismo e del marxismo. Chiama costoro Monistic philosophers (cf. Kochan, 94) tutti, più o meno consapevolmente, figli di Hegel. Il marxismo appariva come la concreta possibilità di superare il dualismo hegeliano relativo alla coscienza infelice e ricondurre all’unità, al pari della religione mussulmana, le istanze politiche e religiose. Sta qui la lucidità del giudizio di Acton sul marxismo: se è impossibile accettarlo per le prospettive che presenta, resta comunque il fatto che notevole è la sua importanza sul piano pratico e politico, ma si potrebbe aggiungere anche sul piano culturale perché ha allontanato tanti studiosi dalle idilliache tentazioni degli economisti classici. Acton riconosce al marxismo il merito di aver fatto esplodere le contraddizioni dell’economia classica e di aver messo in risalto le tristi condizioni di vita di alcuni individui. Troppo semplicistica, e si potrebbe dire manichea, gli appariva comunque l’impostazione dialettica di Marx. Inoltre, essendo stato un profondo lettore di Mill, era convinto che la distinzione tra pubblico e privato fosse fondamentale non solo per le libertà civili, ma pure per quella libertà di coscienza, senza la quale non sussiste un sistema politico degno dell’uomo (cf. Himmelfarb, 48). Mill era ritenuto da Acton uno dei più grandi difensori del liberalismo perché faceva dipendere tale concezione non soltanto da presupposti politici, ma anche economici e morali. Questi ultimi anzi finivano per essere autentici presupposti per la politica e l’economia al punto che «Mill treats political economy as a deductive science» (Fasnacht, APP, 69). Deductive perché si basa su quei valori etici, che derivano a loro volta da quelli religiosi, cancellando i quali è impossibile attuare un’economia liberale.

Il socialismo non è solo marxismo. Acton seguì l’evolversi del fenomeno socialista che, pensava, sicuramente si sarebbe evoluto al pari di quello democratico. Gli stessi teorici della democrazia avevano abbandonato le posizioni più radicali che avrebbero rischiato di attuare la tanto temuta tirannia della maggioranza. Era stato infatti proposto ed attuato il criterio della rappresentanza proporzionale. Essa era profondamente democratica, in quanto accresceva l’influenza delle masse che non avrebbero altrimenti alcuna voce nel governo, e avvicinava gli uomini ad una situazione di eguaglianza, consentendo a ogni elettore di inviare al Parlamento un deputato portatore delle sue stesse opinioni. Le simpatie nei confronti del sistema proporzionale sono dovute al fatto che esso riesce a garantire l’unico equilibrio possibile tra libertà ed eguaglianza, termini che, portati alle loro estreme conclusioni, finiscono per escludersi vicendevolmente. Il socialismo, abbandonate certe intransigenze, renderà possibile la “democrazia moderata” un partial Socialism verso il quale lo storico inglese nutre un sincero interesse che dipende da alcune assunzioni iniziali: «1) l’impresa privata ha fallito nel risolvere il problema della distribuzione; 2) quello di cui i poveri avevano bisogno per prima cosa (...) erano i comfort e la sicurezza; 3) la divisione del potere è la condizione della libertà; 4) il diritto all’autogoverno è inerente a tutte le corporazioni ed associazioni. Per queste ragioni lo Stato non deve controllare l’intera vita economica» (Fasnacht, FS, 27). Per questo si può dire che Acton sia stato un antesignano del liberal-socialismo e «un vero profeta. Egli era favorevole a tutto ciò che nel socialismo fosse compatibile con la vera libertà e con un criterio di responsabilità economica. Egli credeva che la diffusione della ricchezza fosse una delle strade nelle quali lo Stato poteva dare reale, sebbene indiretto, aiuto all’individuo» (Fasnacht, FS, 29).

TESTI RILEVANTI

Acton J. E. D., History of Freedom and other Essays, London, 1907.

Acton J. E. D., The Influence of America, in Essays in  the Liberal Interpretation  of History; selected Papers, con una introduzione di W. H. McNeill, Classical European Historians, Chicago, 1967.

Acton J. E. D., Essays on Freedom and Power, New York, 1955.

D’Addio M. e Negri G., (a cura di) Introduzione a Il Federalista, il Mulino, Bologna, 1980.

Fasnacht G. E., Acton’s Political Philosophy: an Analysis, Hollis and Carter, London, 1952.

Fasnacht G. E.,  Freedom  and  Socialism,  in  Lord Acton on Nationality and Socialism, London, 1949.

Furet F., Penser la Révolution française, Éditions Gallimard, Paris, 1978.

Gasquet A. F.,  Lord Acton and his Circle  (Letters of Lord Acton),  ed. by  Abbot Gasquet, George Allen, Burns & Oates, London, 1906.

Himmelfarb G., Introduction a J. S. Mill, On Liberty, London, 1985.

Kochan L., Acton on History, A. Deutsch, London, 1954.

Mathew D., Acton. The Formative Years, London, 1946.

Matteucci N., Introduzione a Alexis de Tocqueville, Scritti politici, vol. I, UTET, Torino, 1969.

Tocqueville A. de, La démocratie en Amérique I (1835), II (1840), in Œuvres, vol. II, Éditions Gallimard, Paris, 1992.

Tocqueville A. de, L’ancien régime et la Révolution, Éditions Gallimard, Paris, 1996.

Tocqueville A. de, Discours prononcé à l’Assemblée constituante dans la discussion du projet de contitution (12 septembre 1848) sur la question du droit au travail, in Œuvres, vol. I, Éditions Gallimard, Paris, 1991.

 

 

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