Inutile «stampare» credito (lo Stato sia arbitro)

Via dal «quantitative easing», ora un «qualitative easing»

di Giovanni Palladino e Flavio Felice - Pubblicato su Avvenire - 10 ottobre 2015 - - English version



L’ottimismo di Renzi è ammirevole, specialmente quando afferma che l’Italia è già uscita dalle «sabbie mobili» di una lunga recessione. Ma per il momento questo è un auspicio più che un dato di fatto consolidato, perché siamo forse alla vigilia di nuovi venti contrari, che minacciano di frenare la ripresa dell’economia. Il modesto aumento del Pil nel 2015 è tutto dovuto a fattori esterni, che i nostri esportatori hanno saputo sfruttare bene (ribasso dell’euro e del petrolio). Ma è molto probabile che ora la congiuntura internazionale si raffreddi per il rallentamento della Cina, per lo scandalo Volkswagen e per il fallimento della politica di espansione monetaria (quantitative easing) della Banca centrale europea.

Questa politica non funziona in presenza di un eccesso di capacità produttiva delle imprese e di una scarsa domanda di credito da parte delle imprese, frenate dal basso livello dei consumi. Puoi portare il cavallo al lago, ma se non vuole bere, è inutile continuare a rifornirlo di acqua. Lo dimostra il fatto che gran parte della liquidità aggiuntiva fornita dalle Banche centrali alle banche commerciali (oltre 10.000 miliardi di dollari in 6 anni!) è stata riversata dalle stesse banche alle rispettive Banche centrali, facendo gonfiare enormemente le loro riserve 'in eccesso' rispetto alle più modeste riserve 'obbligatorie'. Più che di un quantitative easing – che ha favorito la speculazione di Borsa e il capitalismo finanziario di carta (vero cancro dell’economia moderna) – seguendo anche i moniti di papa Francesco, il mondo avrebbe bisogno di un qualitative easing, ossia di una politica portatrice di pace e non di sanzioni economiche e di costruzione di nuovi muri.

La vera qualità della politica si ha con il favorire una progressiva integrazione dell’economia internazionale, senza ricorrere a scorciatoie monetarie come la 'stampa' di credito, che dovrebbe offendere l’intelligenza di un vero banchiere centrale. E finché non si pone mano alla riforma del sistema monetario internazionale (il re dollaro è ormai nudo per il suo enorme e crescente debito estero), continueremo ad avere «guerre valutarie» che rendono vane le politiche artificiali di espansione monetaria. In un mondo sempre più bisognoso di integrazione economica, ormai nessun Paese potrà uscire dalle «sabbie mobili» dell’incertezza, che è sempre di freno allo sviluppo dell’occupazione, se non si stabilisce un clima di progressiva «pax economica».

Purtroppo oggi la progressione è verso il conflitto. Secondo l’insegnamento sturziano, al quale tentiamo di ispirarci, che incontra il modello dell’economia sociale di mercato, qualitative easing significa che in un gioco o in una partita si otterranno i migliori risultati possibili qualora sussistano le seguenti tre condizioni: la presenza di buoni giocatori (operatori economici responsabili, consapevoli e aggiornati), regole chiare e certe (princìpi con cui regolare la gerarchia delle aspettative) e un arbitro imparziale; lo Stato non può che svolgere le funzioni di arbitro. Il sistema politico è necessario che si distingua dal sistema economico, e con il quantitative easing il rischio è che ne diventi il pusher (lo spacciatore di droga), sia in ambito nazionale sia in ambito internazionale.

Ecco, dunque, l’esigenza di distinguere lo Stato come arbitro, il mercato come campo di gioco e gli operatori come parti del gioco. A questo punto, una volta che ciascun attore recita la propria parte si intravedono anche i possibili antidoti contro il rischio che enormi concentrazioni economiche private possano degenerare in un sistema di collettivismo pubblico. È questo il principale problema nell’agenda di una governance economica domestica e mondiale; un problema che chiede di essere risolto con la massima urgenza se non si voglia correre il rischio di sacrificare il dinamismo economico al ristagno degli accordi collettivi, figli di una logica corporativa, e di sacrificare le libere scelte individuali alla «presunzione fatale» di un Grande Pianificatore.