Per un nuovo meridionalismo liberale: la prospettiva sturziana

di Flavio Felice



Chiunque non abbia ancora un’idea chiara su cosa significhi “decrescita”, è sufficiente che legga l’occhiello del comunicato stampa con il quale la Svimez annuncia l’uscita del suo rapporto annuale: «Sud alla deriva, per il settimo anno consecutivo PIL negativo. Continuano a crollare i consumi delle famiglie e investimenti. Il 62% dei meridionali guadagna meno di 12 mila euro annui». La “decrescita” non è mai desiderabile, in quanto non rende “felice” nessuno, semmai può accarezzare l’invidia sociale e solleticare una malintesa nozione di giustizia sociale, un po’ barricadiera e di impronta populista.

Un autore che al meridionalismo, come questione nazionale, ha dedicato l’intera vita di studioso è Luigi Sturzo. In tutti i suoi interventi sul meridionalismo, Sturzo inserisce la questione meridionale nella più ampia questione nazionale. Egli intravedeva l’esigenza di operare per un Sud “con un’agricoltura potenziata e legata a un’industria di trasformazione”. Per Sturzo quest’area doveva essere economicamente proietta verso il Nord Africa ed il Medio Oriente, essendo posizionata nel cuore del bacino mediterraneo. Perché ciò potesse avvenire, Sturzo intendeva rompere il latifondo, iniziare una incisiva politica di privatizzazioni della terra mediante l’organizzazione del credito agricolo, delle associazioni contadine, dell’autogoverno locale, la promozione delle industrie del settore agricolo e di quelle impegnate nelle bonifiche.

Sturzo pensava ad “interventi conformi al mercato” che agissero come incentivi, che nella prospettiva sturziana avrebbero dovuto sottrarre il Mezzogiorno dal rischio di un’urbanizzazione “industrialista” e avrebbero contribuito a rivitalizzare le zone interne del Sud, tradizionalmente più depresse rispetto alle zone costiere.

In definita, era opinione di Sturzo che il superamento di parte dei problemi della nostra economia nazionale sarebbe dovuto passare per la soluzione della questione meridionale e quest’ultima, a sua volta, per una radicale evoluzione dello stato verso un federalismo efficiente e capace di creare sviluppo economico e coesione sociale su tutto il territorio nazionale, in vista di una maggiore interdipendenza economica e politica tra i paesi europei e via via tra tutte le nazioni del mondo.

Sturzo intravede tre condizioni per una rinascita del Mezzogiorno. Sono le condizioni descritte in uno scritto del 9 novembre del 1947, ma che ricalcano la proposta politica per il Meridione avanzata nel celebre discorso di Napoli del 18 gennaio 1923, intitolato Il Mezzogiorno e la politica italiana. Il programma del risorgimento italiano.

L’opinione di Sturzo era che lo sviluppo del Meridione fosse funzione di una industrializzazione del settore agricolo che rispettasse la vocazione territoriale del Mezzogiorno e le sue peculiarità culturali, senza pretendere di fare concorrenza alle industrie del Nord, pompando denaro pubblico, lì dove il Sud si fosse mostrato evidentemente inadeguato rispetto al Nord.

Sturzo propone in primo luogo, una politica di liberalizzazioni, dal momento che l’ingerenza statale nell’industria avrebbe creato una situazione insostenibile, definibile in questi termini: “monopolio della grande industria che vive da parassita sulla nazione” e “paralisi industriale nelle regioni meno favorite dalla centralizzazione economica”. Si tratta di una condizione ineludibile che consente al Nostro di scattare una fotografia impietosa sull’Italia da poco liberata e speranzosa di rientrare a pieno titolo e da protagonista nel consesso economico e politico mondiale. Scrive Sturzo: «Ho sentito una specie di freddo alle reni quando dopo il mio ritorno in patria , ho appreso che in Italia occorre il permesso del governo per aprire nuove industrie, e che tutto è sottoposto al controllo centrale, togliendo così l’agilità e la responsabilità alla iniziativa privata».

Era questa, per Sturzo, una triste eredità del periodo fascista, un residuo totalitario che era servito al governo centrale per depauperare alcune regioni a vantaggio di altre e per dar vita a gruppi industriali incapaci di stare sul mercato con le proprie forze, gruppi parassitari che sopravvivono drenando risorse dall’erario. In tal modo, denuncia Sturzo, l’Italia si sarebbe imbarcata in un sistema ibrido di “economia di Stato” per alcuni settori industriali e bancari, con la connivenza di una parte cospicua dell’economia privata che pretende di vivere dello sfruttamento delle risorse pubbliche.

In secondo luogo, Sturzo proponeva di dare maggiore consistenza economica alle regioni e procedere verso una progressiva articolazione federale dello stato, in modo che “le giunte regionali concorrano con il governo centrale a ristabilire il necessario equilibrio economico fiscale già alterato a danno del Mezzogiorno”. In terzo luogo, riteneva fosse necessario educare allo spirito d’iniziativa e d’imprenditorialità, affinché il Mezzogiorno fosse restituito ai meridionali e fossero loro gli attori del suo risorgimento: «Lasciate che noi del Meridione possiamo amministraci da noi, da noi designare il nostro indirizzo finanziario, distribuire i nostri tributi, assumere la responsabilità delle nostre opere, trovare l’iniziativa dei rimedi ai nostri mali ;… non siamo pupilli, non abbiamo bisogno della tutela interessata del Nord; e uniti nell’affetto di fratelli e nell’unità di regime, non nella uniformità dell’amministrazione, seguiremo ognuno la nostra via economica, amministrativa e morale nell’esplicazione della nostra vita».

A questo punto, emerge la cifra liberale del meridionalismo e della politica industriale proposti da Sturzo, una cifra che avvicina il meridionalismo popolare sturziano ad una tipologia di sviluppo per “piccoli plotoni”, pensata e proposta da uno dei padri dell’economia sociale di mercato, l’economista tedesco Röpke. Un’autentica politica industriale che conservi il carattere liberale e personalista, di ispirazione sturziana e röpkeiana, si presenta come un sistema di «complessi industriali contigui, indipendenti, collegati per cicli produttivi e serviti da mezzi di trasporto adeguati. Occorre, pertanto, condizionare l’attività industriale in modo da poterla favorire e sviluppare fino al più alto rendimento».

Proprio perché Sturzo non raccomanda una qualsiasi politica industriale, bensì la qualifica e la declina secondo il principio classico di sussidiarietà, potremmo interpretare la proposta sturziana nella prospettiva dei distretti industriali, considerando quest’ultimi come un’esperienza caratterizzata da una particolare frammentazione dei processi produttivi, da una diffusa imprenditorialità e da un alto grado di libertà economica; caratteristiche rese possibili dalla continuità delle istituzioni sociali. In breve, Sturzo, al pari di Röpke, non contempla l’idea di industrie pesanti piovute dall’alto, da un centro politico-burocratico culturalmente ottuso, che avoca a sé il diritto di interpretare la vocazione economica del territorio periferico. Sturzo pensava ad industrie sorrette dallo spirito d’iniziativa e nutrite dalla cultura del rischio: “il rischio che educa”, l’assunzione di un ragionevole rischio che responsabilizzi e che orienti le attività imprenditoriali nella direzione strategica, tale da mettere le imprese e le comunità politiche, economiche e culturali ad esse collegate nelle condizioni di inserirsi in un contesto economico omogeneo ed in una filiera produttiva coerente con l’agricoltura e con il commercio.

Oggi i cattolici possono contare, oltre che sul Magistero sociale della Chiesa, su un patrimonio di idee e di proposte politiche in gran parte ancora inedito. A differenza di alcune copie scarsamente conformi, il federalismo, il liberalismo ed il meridionalismo di Sturzo e della tradizione del popolarismo sono funzione dello sviluppo economico dell’intera nazione ed appaiono come parti integranti di una politica industriale e sociale che diffida delle soluzione centralistiche, dei piani ciclopici, dei progetti faraonici e dell’uniformità legislativa e fiscale, mentre si mostra in sintonia con una visione del progresso economico e sociale coerente con la moderna dottrina sociale della Chiesa ed incentrata sui corpi intermedi, sui piccoli plotoni, sui mondi vitali, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di poliarchia.

In merito al recente rapporto Svimez, “statalismo, partitocrazia, spreco del denaro pubblico” e il disastro è servito. Che cosa ci si aspettava da una simile ricetta? Il dramma è che Sturzo ha denunciato queste male bestie della democrazia sin dai primi del Novecento, fino al giorno prima della sua morte. Inascoltato, nella migliore delle ipotesi, mentre i suoi avversari democristiani, social-comunisti e fascisti arrivarono a definirlo persino “liberista”, pensando – poveretti – di insultarlo. Ai suoi detrattori Sturzo rispose “ebbene si, sono sempre stato un liberista fuori stagione”