Recensione a Istituzioni, persona e mercato per la rivista «Rivista di Studi Politici» (settembre 2013)
di Beniamino Di Martino
Istituzioni, persona e mercato. La persona nel contesto del liberalismo delle regole è il volume più recente di Flavio Felice che, nonostante la sua età (è nato nel 1969), ha al suo attivo un già lungo elenco di titoli. Professore di Dottrine Politiche ed Economiche alla Pontificia Università Lateranense, vice preside dell’Istituto Pastorale della stessa PUL nonché presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton, Flavio Felice merita di essere considerato, insieme a Francesco Forte, come il più attento conoscitore, nel panorama economico italiano, di quella particolare scuola che viene ricordata come “ordoliberalismo” o “liberalismo delle regole”.
L’“ordoliberalismo” risale alla metà degli anni Trenta quando, all’interno dell’università di Friburgo in Brisgovia, un gruppo di docenti diede avvio alla riflessione su come porre le spinte economiche all’interno di un chiaro quadro giuridico. Intorno ai giuristi Franz Böhm (1895-1977) e Hans Grossmann-Dörth (1894-1944) ed all’economista Walter Eucken (1891-1950) si produsse un’interessante serie di contributi destinata a trascendere la profonda e tragica crisi continentale. In questo modo si sviluppò, in anni in cui il nazionalsocialismo consolidava il suo potere in Germania, la cosiddetta Scuola di Friburgo che subito, ed inevitabilmente, divenne anche uno dei più qualificati cenacoli in cui si ritrovarono insigni personalità ostili al regime. Nel 1936 i tre studiosi formularono un testo programmatico, Il Manifesto dell’Ordo (Ordnung der Wirtschaft), dal titolo Il nostro compito, in cui oltre a prendere le distanze dalla Scuola storicistica tedesca (contro la quale già la prima generazione della Scuola Austriaca aveva dovuto confrontarsi), si esplicitava il principio di «legare all’idea di costituzione economica tutte le questioni pratiche politico-giuridiche o politico-economiche», mettendo il diritto e l’economia politica al passo degli eventi, come veniva affermato nelle prime righe del documento.
Con il programma dichiarato in Ordnung der Wirtschaft (ossia le Regole dell’economia) veniva, pertanto, battezzata quell’“economia dell’ordine” che, nell’imprescindibile ancoraggio al principio della concorrenza, nell’irrinunciabile fondamento delle libertà individuali e nell’imperativa costruzione di una società libera, ha sviluppato la ricerca di una particolare strada del liberalismo inserendo questo in un contesto di regole più chiare possibili e di normative giuridiche più attive ed efficaci. Accanto agli autori del Manifesto dell’Ordo del 1936 (Eucken, Grossmann-Dörth e Böhm), la Scuola friburghese ha annoverato le figure di quegli economisti e di quei politici a cui si riconnette il miracolo tedesco: Ludwig Erhard (1897-1977) e Wilhelm Röpke (1899-1966), Konrad Adenauer (1876-1967) e Alfred Müller-Armack (1901-1978). Accanto a questi nomi a tutti noti, debbono aggiungersi, tra gli altri teorici dell’Ordoliberalismo, almeno i nomi di Constantin von Dietze (1891-1973), Adolf Lampe (1897-1948) e, soprattutto, Alexander Rüstow (1885-1963).
Flavio Felice, in un fecondo sodalizio con Francesco Forte, ha contribuito come probabilmente nessun altro alla diffusione nel nostro Paese del paradigma del “liberalismo delle regole”. Ciò è avvenuto attraverso una serie di volumi pubblicati a partire dal 2008: ad alcuni originali testi personali, si è affianca la preparazione di alcune antologie riccamente commentate. È l’impegno di Felice che oggi consente al lettore italiano – sia esso esperto studioso, sia esso interessato cultore – di avvicinarsi ai postulati di quel particolare modo di declinare il liberalismo che oggi è noto come “economia sociale di mercato”.
L’ultimo lavoro («un ulteriore tassello», p. 9), che si inserisce in questo ampio impegno teso ad importare nel dibattito nostrano la prospettiva economico-istituzionale sviluppata dalla Scuola friburghese, è, appunto, costituito da Istituzioni, persona e mercato.
Si tratta di un libro agile che si lascia avvicinare suscitando l’interesse del lettore su vari piani, tali quali sono i pluriformi aspetti espressi anche dal modo con cui è strutturato il volume: una parte teoretica, una parte storica, una parte monografica e un’ultima parte dedicata ad un’originale lettura del recente insegnamento sociale della Chiesa. In queste quattro sezioni in cui è suddiviso il testo, Felice riesce assai bene ad «analizzare alcuni aspetti rilevanti del pensiero economico moderno e contemporaneo» (p. 10).
La prima parte del volume offre un’utile introduzione all’impianto generale dell’“economia sociale di mercato”. Ciò avviene attraverso due saggi che ne presentano la prospettiva in chiave teorica. Il primo di questi si sofferma principalmente su Alfred Müller-Armack, giustamente considerato tra i massimi protagonisti della “Scuola” per aver precisato e esplicitato «il quadro concettuale» (p. 19) del paradigma della Soziale Marktwirtschaft (tra l’altro, a Müller-Armack si deve la stessa formula “economia sociale di mercato”). È, infatti, l’economista tedesco che, partendo dalla teoria del ciclo economico, suggerisce una particolare attenzione ad alcune variabili macroeconomiche quali la crescita economica, la percentuale d’inflazione e il livello di disoccupazione. Da qui il compito – imprescindibile nella prospettiva “friburghese” – delle istituzioni che devono vegliare per evitare che queste variabili finiscano fuori controllo. Se in ciò si nota una differenziazione rispetto alla impostazione della Scuola Austriaca, l’irrinunciabile principio della concorrenza costituisce l’elemento di riconciliazione tra le due tradizioni. Questo è dimostrato anche e soprattutto dal rifiuto – chiaro in Müller-Armack – di considerare l’“economia sociale di mercato” quale “terza via” tra libero mercato e socialismo. Essa si pone, invece, nettamente all’interno della prima opzione, sebbene – dice Felice – «con elementi di equità sociale costitutivi per sua stessa definizione» (p. 22). È questo il modo con cui il paradigma dell’“Ordo” pone in connessione libertà individuale e ruolo delle istituzioni provando a dimostrare come una politica autenticamente sociale debba necessariamente avere una prospettiva schiettamente liberale. Come se non vi fosse già materiale sufficiente per molta riflessione, a corredo di questa parte dal taglio teorico, Felice aggiunge un secondo saggio sul controverso e sempre intrigante rapporto tra etica ed economia offrendo motivi per evitare di scivolare o nel «dualismo non comunicante» o nella «speculare pretesa egemonica» (p. 51).
All’approfondimento storico si presta la seconda sezione del volume che presenta la figura filosofica e l’opera economica di Melchiorre Delfico (1744-1835), tra i protagonisti dell’illuminismo napoletano. A Teramo (allora parte del regno delle Due Sicilie) Delfico nacque e morì, ma a Napoli si formò avendo anche Antonio Genovesi (1713-1769) tra i suoi maestri e, come abruzzese, Delfico è, quindi, conterraneo dell’abate teatino Ferdinando Galiani (1728-1787). Con Genovesi e con Galiani, dunque, Delfico incrociò la propria vicenda personale ed intellettuale per essere, quindi, richiamato con i due precursori della moderna scienza economica in quel movimento riformatore che, genericamente ascritto all’illuminismo, dovrebbe, invece, essere meglio precisato come fisiocratico e liberale.
Ai primordi di una disciplina che precisava il proprio statuto epistemologico, con Genovesi che fu titolare della prima cattedra al mondo di economia nel 1754 all’università di Napoli e con Galiani che anticipava la teoria soggettiva del valore, Delfico è, in modo ingeneroso, considerato di scarsa originalità scientifica. Da qui l’utilità del saggio di Felice (compaesano di Delfico) che, invece, dimostra il valore del contributo dello studioso di Teramo in ordine, ad esempio, alla teoria dei costi comparati, alla libertà commerciale e al ruolo della legge.
La terza parte del volume si compone di due monografie quasi all’insegna di testimonianze a favore della libertà. La prima di queste monografie è su Sturzo; la seconda sviluppa un confronto tra alcuni documenti estremamente significativi nella storia sociale e politica della metà del secolo scorso.
Don Luigi Sturzo (1871-1959) merita senz’altro di essere riconosciuto come uno dei grandi testimoni della libertà. Lontano da ogni concezione organicistica della realtà umana e sociale, il sacerdote siciliano è stato uno dei maggiori propugnatori delle autonomie locali e del federalismo istituzionale. In un’Italia forgiata nel centralismo e nel sistema prefettizio, il pensiero liberale sturziano è tra le poche voci che dà al meridionalismo – divenuto presto moda sociologica – contenuti chiari e freschi, realistici e concreti, e pertanto antitetici ad ogni riciclaggio di vecchie utopie illuministiche in nuovi contenitori politologici. Per evitare di passare dall’accentramento risorgimentale alla disarticolazione sociale, la strada che Sturzo indica è quella della valorizzazione dei dinamismi sociali con la vitalizzazione dei corpi intermedi nel recupero di una necessaria poliarchia istituzionale e di una feconda applicazione, ad ogni livello, della sussidiarietà.
In un contesto storico turbolento e drammatico, tale quale furono gli anni Trenta e Quaranta del Ventesimo secolo alcuni documenti programmatici hanno assunto significati particolarmente espressivi di tendenze sociali e di orientamenti politico-economici. Felice, in modo interessante, offre un’analisi ed una comparazione di alcuni testi-manifesti che sono passati alla storia per la loro portata e per l’influenza esercitata (prescindendo, quindi, dal giudizio che ad essi si vuol dare): il tedesco Manifesto di Friburgo (1936), l’inglese Piano Beveridge (1942) e l’italiano Codice di Camaldoli (1943).
La quarta parte del testo di Felice quale scelta di “prospettiva” (così è qualificata questa ultima sezione) offre un’originale presentazione dell’enciclica Caritas in veritate che Benedetto XVI ha promulgato nel giugno del 2009. Il saggio su quello che è anche il più recente documento di una lunga serie di attestazioni, di interventi, di scritti – che, nella loro complessità e nella loro globalità, costituiscono l’insegnamento sociale della Chiesa – mette, prima, in relazione l’enciclica con l’intero e non sempre lineare magistero cattolico e, poi, richiama alcune questioni nodali. Se alcune di queste sono, in modo assai interessante, poste in relazione con gli indirizzi propri dell’economia sociale di mercato, è anche su altri aspetti che non si può non riconoscere a Felice l’originalità del suo contributo. Ci riferiamo al modo con cui il giovane professore della Lateranense ha analizzato sia il principio di poliarchia nell’enciclica sia il modo con cui va gestita la globalizzazione secondo la Caritas in veritate. Purtroppo questi aspetti non sono accennati nel saggio presente nel volume Istituzioni, persona e mercato; questi temi sono, invece, presenti in altri testi di Felice. Di questa assenza ci si rammarica anche perché entrambe le questioni avrebbero ben potuto trovare spazio, in modo congeniale, in questo libro tanto più perché relazionabili alla prospettiva teorica del liberalismo delle regole.
In conclusione, ci sia permesso dire, brevissimamente, qualcosa relativamente alla dedica che Felice rivolge a Massimo Baldini in qualità di «maestro e amico». Massimo Baldini (1947-2008) è stato uno dei più profondi interpreti italiani dell’individualismo metodologico hayekiano e del razionalismo critico popperiano e, non a caso, è stato anche un conoscitore attento degli autori Ordoliberali (in particolare Röpke). Forse, allora, la scelta di dedicare a Baldini un testo sulla “economia sociale di mercato” può essere interpretata come un significativo ponte tra la Scuola Austriaca e la Scuola di Friburgo, tra il “liberalismo marginalista” e il “liberalismo delle regole”. Tweet
Istituzioni, persona e mercato. La persona nel contesto del liberalismo delle regole è il volume più recente di Flavio Felice che, nonostante la sua età (è nato nel 1969), ha al suo attivo un già lungo elenco di titoli. Professore di Dottrine Politiche ed Economiche alla Pontificia Università Lateranense, vice preside dell’Istituto Pastorale della stessa PUL nonché presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton, Flavio Felice merita di essere considerato, insieme a Francesco Forte, come il più attento conoscitore, nel panorama economico italiano, di quella particolare scuola che viene ricordata come “ordoliberalismo” o “liberalismo delle regole”.
L’“ordoliberalismo” risale alla metà degli anni Trenta quando, all’interno dell’università di Friburgo in Brisgovia, un gruppo di docenti diede avvio alla riflessione su come porre le spinte economiche all’interno di un chiaro quadro giuridico. Intorno ai giuristi Franz Böhm (1895-1977) e Hans Grossmann-Dörth (1894-1944) ed all’economista Walter Eucken (1891-1950) si produsse un’interessante serie di contributi destinata a trascendere la profonda e tragica crisi continentale. In questo modo si sviluppò, in anni in cui il nazionalsocialismo consolidava il suo potere in Germania, la cosiddetta Scuola di Friburgo che subito, ed inevitabilmente, divenne anche uno dei più qualificati cenacoli in cui si ritrovarono insigni personalità ostili al regime. Nel 1936 i tre studiosi formularono un testo programmatico, Il Manifesto dell’Ordo (Ordnung der Wirtschaft), dal titolo Il nostro compito, in cui oltre a prendere le distanze dalla Scuola storicistica tedesca (contro la quale già la prima generazione della Scuola Austriaca aveva dovuto confrontarsi), si esplicitava il principio di «legare all’idea di costituzione economica tutte le questioni pratiche politico-giuridiche o politico-economiche», mettendo il diritto e l’economia politica al passo degli eventi, come veniva affermato nelle prime righe del documento.
Con il programma dichiarato in Ordnung der Wirtschaft (ossia le Regole dell’economia) veniva, pertanto, battezzata quell’“economia dell’ordine” che, nell’imprescindibile ancoraggio al principio della concorrenza, nell’irrinunciabile fondamento delle libertà individuali e nell’imperativa costruzione di una società libera, ha sviluppato la ricerca di una particolare strada del liberalismo inserendo questo in un contesto di regole più chiare possibili e di normative giuridiche più attive ed efficaci. Accanto agli autori del Manifesto dell’Ordo del 1936 (Eucken, Grossmann-Dörth e Böhm), la Scuola friburghese ha annoverato le figure di quegli economisti e di quei politici a cui si riconnette il miracolo tedesco: Ludwig Erhard (1897-1977) e Wilhelm Röpke (1899-1966), Konrad Adenauer (1876-1967) e Alfred Müller-Armack (1901-1978). Accanto a questi nomi a tutti noti, debbono aggiungersi, tra gli altri teorici dell’Ordoliberalismo, almeno i nomi di Constantin von Dietze (1891-1973), Adolf Lampe (1897-1948) e, soprattutto, Alexander Rüstow (1885-1963).
Flavio Felice, in un fecondo sodalizio con Francesco Forte, ha contribuito come probabilmente nessun altro alla diffusione nel nostro Paese del paradigma del “liberalismo delle regole”. Ciò è avvenuto attraverso una serie di volumi pubblicati a partire dal 2008: ad alcuni originali testi personali, si è affianca la preparazione di alcune antologie riccamente commentate. È l’impegno di Felice che oggi consente al lettore italiano – sia esso esperto studioso, sia esso interessato cultore – di avvicinarsi ai postulati di quel particolare modo di declinare il liberalismo che oggi è noto come “economia sociale di mercato”.
L’ultimo lavoro («un ulteriore tassello», p. 9), che si inserisce in questo ampio impegno teso ad importare nel dibattito nostrano la prospettiva economico-istituzionale sviluppata dalla Scuola friburghese, è, appunto, costituito da Istituzioni, persona e mercato.
Si tratta di un libro agile che si lascia avvicinare suscitando l’interesse del lettore su vari piani, tali quali sono i pluriformi aspetti espressi anche dal modo con cui è strutturato il volume: una parte teoretica, una parte storica, una parte monografica e un’ultima parte dedicata ad un’originale lettura del recente insegnamento sociale della Chiesa. In queste quattro sezioni in cui è suddiviso il testo, Felice riesce assai bene ad «analizzare alcuni aspetti rilevanti del pensiero economico moderno e contemporaneo» (p. 10).
La prima parte del volume offre un’utile introduzione all’impianto generale dell’“economia sociale di mercato”. Ciò avviene attraverso due saggi che ne presentano la prospettiva in chiave teorica. Il primo di questi si sofferma principalmente su Alfred Müller-Armack, giustamente considerato tra i massimi protagonisti della “Scuola” per aver precisato e esplicitato «il quadro concettuale» (p. 19) del paradigma della Soziale Marktwirtschaft (tra l’altro, a Müller-Armack si deve la stessa formula “economia sociale di mercato”). È, infatti, l’economista tedesco che, partendo dalla teoria del ciclo economico, suggerisce una particolare attenzione ad alcune variabili macroeconomiche quali la crescita economica, la percentuale d’inflazione e il livello di disoccupazione. Da qui il compito – imprescindibile nella prospettiva “friburghese” – delle istituzioni che devono vegliare per evitare che queste variabili finiscano fuori controllo. Se in ciò si nota una differenziazione rispetto alla impostazione della Scuola Austriaca, l’irrinunciabile principio della concorrenza costituisce l’elemento di riconciliazione tra le due tradizioni. Questo è dimostrato anche e soprattutto dal rifiuto – chiaro in Müller-Armack – di considerare l’“economia sociale di mercato” quale “terza via” tra libero mercato e socialismo. Essa si pone, invece, nettamente all’interno della prima opzione, sebbene – dice Felice – «con elementi di equità sociale costitutivi per sua stessa definizione» (p. 22). È questo il modo con cui il paradigma dell’“Ordo” pone in connessione libertà individuale e ruolo delle istituzioni provando a dimostrare come una politica autenticamente sociale debba necessariamente avere una prospettiva schiettamente liberale. Come se non vi fosse già materiale sufficiente per molta riflessione, a corredo di questa parte dal taglio teorico, Felice aggiunge un secondo saggio sul controverso e sempre intrigante rapporto tra etica ed economia offrendo motivi per evitare di scivolare o nel «dualismo non comunicante» o nella «speculare pretesa egemonica» (p. 51).
All’approfondimento storico si presta la seconda sezione del volume che presenta la figura filosofica e l’opera economica di Melchiorre Delfico (1744-1835), tra i protagonisti dell’illuminismo napoletano. A Teramo (allora parte del regno delle Due Sicilie) Delfico nacque e morì, ma a Napoli si formò avendo anche Antonio Genovesi (1713-1769) tra i suoi maestri e, come abruzzese, Delfico è, quindi, conterraneo dell’abate teatino Ferdinando Galiani (1728-1787). Con Genovesi e con Galiani, dunque, Delfico incrociò la propria vicenda personale ed intellettuale per essere, quindi, richiamato con i due precursori della moderna scienza economica in quel movimento riformatore che, genericamente ascritto all’illuminismo, dovrebbe, invece, essere meglio precisato come fisiocratico e liberale.
Ai primordi di una disciplina che precisava il proprio statuto epistemologico, con Genovesi che fu titolare della prima cattedra al mondo di economia nel 1754 all’università di Napoli e con Galiani che anticipava la teoria soggettiva del valore, Delfico è, in modo ingeneroso, considerato di scarsa originalità scientifica. Da qui l’utilità del saggio di Felice (compaesano di Delfico) che, invece, dimostra il valore del contributo dello studioso di Teramo in ordine, ad esempio, alla teoria dei costi comparati, alla libertà commerciale e al ruolo della legge.
La terza parte del volume si compone di due monografie quasi all’insegna di testimonianze a favore della libertà. La prima di queste monografie è su Sturzo; la seconda sviluppa un confronto tra alcuni documenti estremamente significativi nella storia sociale e politica della metà del secolo scorso.
Don Luigi Sturzo (1871-1959) merita senz’altro di essere riconosciuto come uno dei grandi testimoni della libertà. Lontano da ogni concezione organicistica della realtà umana e sociale, il sacerdote siciliano è stato uno dei maggiori propugnatori delle autonomie locali e del federalismo istituzionale. In un’Italia forgiata nel centralismo e nel sistema prefettizio, il pensiero liberale sturziano è tra le poche voci che dà al meridionalismo – divenuto presto moda sociologica – contenuti chiari e freschi, realistici e concreti, e pertanto antitetici ad ogni riciclaggio di vecchie utopie illuministiche in nuovi contenitori politologici. Per evitare di passare dall’accentramento risorgimentale alla disarticolazione sociale, la strada che Sturzo indica è quella della valorizzazione dei dinamismi sociali con la vitalizzazione dei corpi intermedi nel recupero di una necessaria poliarchia istituzionale e di una feconda applicazione, ad ogni livello, della sussidiarietà.
In un contesto storico turbolento e drammatico, tale quale furono gli anni Trenta e Quaranta del Ventesimo secolo alcuni documenti programmatici hanno assunto significati particolarmente espressivi di tendenze sociali e di orientamenti politico-economici. Felice, in modo interessante, offre un’analisi ed una comparazione di alcuni testi-manifesti che sono passati alla storia per la loro portata e per l’influenza esercitata (prescindendo, quindi, dal giudizio che ad essi si vuol dare): il tedesco Manifesto di Friburgo (1936), l’inglese Piano Beveridge (1942) e l’italiano Codice di Camaldoli (1943).
La quarta parte del testo di Felice quale scelta di “prospettiva” (così è qualificata questa ultima sezione) offre un’originale presentazione dell’enciclica Caritas in veritate che Benedetto XVI ha promulgato nel giugno del 2009. Il saggio su quello che è anche il più recente documento di una lunga serie di attestazioni, di interventi, di scritti – che, nella loro complessità e nella loro globalità, costituiscono l’insegnamento sociale della Chiesa – mette, prima, in relazione l’enciclica con l’intero e non sempre lineare magistero cattolico e, poi, richiama alcune questioni nodali. Se alcune di queste sono, in modo assai interessante, poste in relazione con gli indirizzi propri dell’economia sociale di mercato, è anche su altri aspetti che non si può non riconoscere a Felice l’originalità del suo contributo. Ci riferiamo al modo con cui il giovane professore della Lateranense ha analizzato sia il principio di poliarchia nell’enciclica sia il modo con cui va gestita la globalizzazione secondo la Caritas in veritate. Purtroppo questi aspetti non sono accennati nel saggio presente nel volume Istituzioni, persona e mercato; questi temi sono, invece, presenti in altri testi di Felice. Di questa assenza ci si rammarica anche perché entrambe le questioni avrebbero ben potuto trovare spazio, in modo congeniale, in questo libro tanto più perché relazionabili alla prospettiva teorica del liberalismo delle regole.
In conclusione, ci sia permesso dire, brevissimamente, qualcosa relativamente alla dedica che Felice rivolge a Massimo Baldini in qualità di «maestro e amico». Massimo Baldini (1947-2008) è stato uno dei più profondi interpreti italiani dell’individualismo metodologico hayekiano e del razionalismo critico popperiano e, non a caso, è stato anche un conoscitore attento degli autori Ordoliberali (in particolare Röpke). Forse, allora, la scelta di dedicare a Baldini un testo sulla “economia sociale di mercato” può essere interpretata come un significativo ponte tra la Scuola Austriaca e la Scuola di Friburgo, tra il “liberalismo marginalista” e il “liberalismo delle regole”. Tweet