Aiutare Haiti ad alta voce

di Massimiliano Padula

Era un paese già martoriato. Dalla povertà, dalla fame, dalla guerra. Un agglomerato umano di sottosviluppo lambito dal Mar dei Caraibi. Acque cristalline, cuori scuri dallo stento, pance svuotate dalla miseria, anime impaurite dai conflitti. Haiti è il paese più povero delle Americhe, nel suo dna scorre sangue di schiavitù, fin da prima dell’indipendenza avvenuta nel 1804. Oggi, a poche ore dal terremoto che lo ha distrutto, Haiti è solo un punto in mezzo al mare. Non esiste più. La sua identità multirazziale è ripiegata su se stessa, coperta anche essa dalle macerie, dalle polveri bianche dei palazzi coloniali di Port-au-Prince. Non contano più i numeri, quanti morti, quanti italiani caduti, ma solo il silenzio della distruzione. L’immagine dell’apocalisse che giunge al resto dell’umanità attraverso i media, implora la quiete del rispetto di fronte ad una catastrofe sulle catastrofi. Guardare quei corpi neri sbiancati dai fumi dei detriti è più efficace di qualunque proclama di soccorso. È il caos che smuove le coscienze forse sopite o indifferenti al paese più stravagante del mondo occidentale. Una nazione autodistruttiva, luogo di rivolte popolari, di disordini e di violenza dove la maggioranza degli abitanti sopravvive con meno di due dollari al giorno. Terra di nessuno, di bidonville, di corruzione e uragani, più povero di molti paesi dell’Africa. Quasi tutti gli haitiani hanno sangue africano e come molti figli del continente tormentato, stanno morendo sotto i calcinacci delle case perché manca la luce sufficiente per scovarli. Quel sangue che appartiene anche a Barak Obama che, come tanti altri capi di stato, non ha perso tempo inviando aiuti massicci.

Non ci sono ospedali sufficienti ad Haiti, ne cibo né acqua per sfamare e dissetare tutti i feriti. Haiti è un paese allo sbando. Troppe sono state le opportunità di riscatto, troppe le delusioni. Questo terremoto rischia di esserne l’ennesima.

Aiutarli indistintamente adesso sembra l’unica via da percorrere. Insieme alla preghiera. Veicolare la sofferenza ed innescare vicinanza. Ad alta voce e con tutti gli strumenti a disposizione. I social network, unici mezzi di comunicazione che resistono dopo il terremoto, facilitano questo compito. I missionari, i volontari e l’universo politico lo stanno concretizzando. Ognuno di noi lo può supportare.

Perché il terremoto è un’emergenza che deve essere tamponata ma Haiti no. La sua gente non ha bisogno di pezze occasionali ma di progetti di rilancio a lunga durata che siano sviluppati in tempi di pace sociale e politica. Soltanto così la favela dei caraibi potrà risollevarsi da quel baratro in cui le sciagure della natura e degli uomini l’hanno fatta sprofondare.