The Asian Trip
di Alia K. Nardini
In un alternarsi di caute speranze e pesanti critiche, è giunto al termine il viaggio di Barack Obama in Asia, apice della dottrina conciliatoria della “mano tesa” che sembra sempre più voler caratterizzare la politica estera del Presidente.
Obama ha inaugurato a Tokyo l’inizio di una nuova era in cui l’America non imporrà più una sua visione del mondo, ma lavorerà per rafforzare le partnership con gli altri protagonisti della geopolitica globale attraverso “interessi condivisi e reciproco rispetto”. Sarebbe bene ricordare tuttavia a Obama che il dialogo, così come il rispetto, sono valori “occidentali” che potrebbero non essere così diffusi tra gli interlocutori del Presidente. In altre parole, come nota Michael Scherer dalle pagine della rivista Time: bisogna capire dove finiscano la deferenza politica e la ricerca di un terreno comune, e dove abbino inizio la passività e l’allontanamento dall’interesse americano.
La Dottrina Obama in politica estera, quella che i conservatori definiscono “la totale assenza di capacità di giudizio morale da parte degli Stati Uniti in ambito internazionale”, non manca di impensierire sempre più americani, di destra così come di sinistra. Sorprende principalmente l’incapacità di Obama di ammettere la palese contraddizione tra il suo richiamo al rispetto dei diritti umani, e la stretta di mano con Thein Sein, Primo Ministro birmano. Sorprende che Obama esiga rispetto per la libertà di espressione nel discorso agli studenti di Shangai, proprio mentre il discorso stesso viene censurato. Sorprende che prometta un mondo più attento all’ambiente, senza ottenere nemmeno un piccolo impegno da parte della Cina sulla tutela del clima.
Sappiamo tutti che in politica talvolta si deve scendere a compromessi. E che questi compromessi contemplano il dialogo, e talvolta le trattative (in ambito economico, e non solo), con regimi autoritari ed illiberali. Ciò nonostante, una dottrina così palesemente improntata sulla ricerca di affinità, e pronta ad accantonare differenze inconciliabili (riguardo alla censura cinese, Obama è giunto ad affermare che ogni paese, dopotutto, ha le sue “tradizioni”) non sembra affatto gettare le basi per un incontro proficuo per progetti condivisi. Sembra piuttosto dare spazio e tacita approvazione affinché tutto quello per cui l’Occidente ha combattuto, quello in cui crede e su cui si ergono le sue tradizioni venga posto in secondo piano, relegato a un ruolo subalterno a stili di vita moralmente equivalenti: un multiculturalismo dove ogni pretesa è legittima, tranne quelle dell’Occidente.
David Axelrod, al ritorno dal viaggio in Asia in cui ha seguito il Presidente, afferma che nel lungo periodo sarà l’approccio obamiano della cooperazione e della mano tesa, e non l’altezzoso intransigentismo dei Repubblicani, a fare la differenza nelle relazioni internazionali.
E se avesse torto?
In un alternarsi di caute speranze e pesanti critiche, è giunto al termine il viaggio di Barack Obama in Asia, apice della dottrina conciliatoria della “mano tesa” che sembra sempre più voler caratterizzare la politica estera del Presidente.
Obama ha inaugurato a Tokyo l’inizio di una nuova era in cui l’America non imporrà più una sua visione del mondo, ma lavorerà per rafforzare le partnership con gli altri protagonisti della geopolitica globale attraverso “interessi condivisi e reciproco rispetto”. Sarebbe bene ricordare tuttavia a Obama che il dialogo, così come il rispetto, sono valori “occidentali” che potrebbero non essere così diffusi tra gli interlocutori del Presidente. In altre parole, come nota Michael Scherer dalle pagine della rivista Time: bisogna capire dove finiscano la deferenza politica e la ricerca di un terreno comune, e dove abbino inizio la passività e l’allontanamento dall’interesse americano.
La Dottrina Obama in politica estera, quella che i conservatori definiscono “la totale assenza di capacità di giudizio morale da parte degli Stati Uniti in ambito internazionale”, non manca di impensierire sempre più americani, di destra così come di sinistra. Sorprende principalmente l’incapacità di Obama di ammettere la palese contraddizione tra il suo richiamo al rispetto dei diritti umani, e la stretta di mano con Thein Sein, Primo Ministro birmano. Sorprende che Obama esiga rispetto per la libertà di espressione nel discorso agli studenti di Shangai, proprio mentre il discorso stesso viene censurato. Sorprende che prometta un mondo più attento all’ambiente, senza ottenere nemmeno un piccolo impegno da parte della Cina sulla tutela del clima.
Sappiamo tutti che in politica talvolta si deve scendere a compromessi. E che questi compromessi contemplano il dialogo, e talvolta le trattative (in ambito economico, e non solo), con regimi autoritari ed illiberali. Ciò nonostante, una dottrina così palesemente improntata sulla ricerca di affinità, e pronta ad accantonare differenze inconciliabili (riguardo alla censura cinese, Obama è giunto ad affermare che ogni paese, dopotutto, ha le sue “tradizioni”) non sembra affatto gettare le basi per un incontro proficuo per progetti condivisi. Sembra piuttosto dare spazio e tacita approvazione affinché tutto quello per cui l’Occidente ha combattuto, quello in cui crede e su cui si ergono le sue tradizioni venga posto in secondo piano, relegato a un ruolo subalterno a stili di vita moralmente equivalenti: un multiculturalismo dove ogni pretesa è legittima, tranne quelle dell’Occidente.
David Axelrod, al ritorno dal viaggio in Asia in cui ha seguito il Presidente, afferma che nel lungo periodo sarà l’approccio obamiano della cooperazione e della mano tesa, e non l’altezzoso intransigentismo dei Repubblicani, a fare la differenza nelle relazioni internazionali.
E se avesse torto?