L'economia sociale di mercato: l'Europa e l'Italia

di Flavio Felice

Questo articolo è stato pubblicato da "Synthesis", anno 2°, Numeri 8-9, Settembre-Novembre 2009 e in versione inglese dall'American Enterprise Institute.


In seguito al Consiglio Europeo che si tenne a Lisbona nel marzo del 2000, i capi di Stato o di governo hanno avviato la cosiddetta 'strategia di Lisbona', con l'obiettivo di fare dell'Unione Europea l'area economica più competitiva del mondo e di pervenire alla piena occupazione entro il 2010. Tale ambiziosa strategia negli anni è stata sviluppata ed oggi possiamo affermare che essa si fonda sui tre seguenti pilastri:

- un pilastro economico che deve preparare la transizione verso un'economia competitiva, dinamica e fondata sulla conoscenza. L'accento è posto sulla necessità di adattarsi continuamente alle evoluzioni della società dell'informazione e sulle iniziative da incoraggiare in materia di ricerca e di sviluppo ;
- un pilastro sociale che deve consentire di modernizzare il modello sociale europeo grazie all'investimento nelle risorse umane e alla lotta contro l'esclusione sociale. Gli Stati membri sono invitati a investire nell'istruzione e nella formazione e a condurre una politica attiva per l'occupazione onde agevolare il passaggio all'economia della conoscenza;
- un pilastro ambientale aggiunto in occasione del Consiglio europeo di Göteborg nel giugno 2001 e che attira l'attenzione sul fatto che la crescita economica va dissociata dall'utilizzazione delle risorse naturali. (http://europa.eu/scadplus/glossary/lisbon_strategy_it.htm)



Con particolare riferimento al primo pilastro, è opinione diffusa presso i giuristi economici e gli storici del pensiero economico che il processo di unificazione europea, la predisposizione di 'autorità indipendenti', la nascita di un'area economica informata al principio di concorrenza che, a partire da Roma, passando per Maastricht, giunge fino a Lisbona, abbiano ricevuto un particolare impulso dalle riflessioni dei cosiddetti 'ordoliberali' tedeschi della prima metà del XX secolo.
Alcuni giuristi si sono spinti ad affermare che la teoria economica ordoliberale: l'economia sociale di mercato, sarà la base dell'ordinamento comunitario europeo.
Il contributo più originale degli ordoliberali è stato di aver aggredito le problematiche del mercato concorrenziale a partire da un 'approccio istituzionale': l'ordine concorrenziale è di per sé un 'bene pubblico' e in quanto tale andrebbe tutelato. Tale prospettiva costituzionalista relativa al mercato accosta gli ordoliberali della Scuola di Friburgo alla ricerca istituzionale di James Buchanan, il quale ha universalizzato l'ideale liberale di cooperazione volontaria, trasferendolo dall'ambito delle scelte di mercato a quello delle scelte istituzionali.
Il problema principale dell'economia sociale di mercato è di stabilire un soddisfacente ordine di libertà e di uguaglianza. Nel programma di Ludwig Erhard, il ministro dell'economia e Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, colui che maggiormente contribuì in sede politica alla traduzione dei principi ordoliberali in politiche conformi con la teoria dell'ordine di mercato concorrenziale, l'economia sociale è lo scopo che si consegue tramite il mercato, che opera in qualità di mezzo: il mercato è sempre un mezzo, mai un fine. La concezione di Erhard, ma prima di lui di Eucken, di Röepke, di Grossman-Dörth, di Böm, di Rustov e dello stesso Adenauer, di un'economia sociale di mercato si struttura su questi tre punti: 1. impedire al potere politico di essere sorgente arbitraria del potere; 2. sopprimere ogni struttura monopolistica; 3. fare prevalere in ogni caso la libertà e la concorrenza. E' interessante notare come la sequenza ed il senso di tale programma incontrino le condizioni di un ordinato sistema politico ed economico raccomandato da Giovanni Paolo II nella Centesimus Annus, paragrafi 19 e 42 e da Benedetto XVI nella sua enciclica sociale Caritas in veritate.
La domanda che ci poniamo, a questo punto, è la seguente: se, e in che modo, in sede accademica e di politica costituente, il contributo ordoliberale abbia fatto breccia in Italia? Tranne alcune meritorie eccezioni in sede accademica, credo si possa riconoscere che la lezione della Scuola di Friburgo non abbia avuto grande successo nel nostro Paese. Basti leggere quanto ebbe a scrive il prof. Tommaso Padoa Schioppa: 'Le norme sui rapporti economici contenute nella I parte della Costituzione del 1948 appaiono largamente ispirate all'idea che le pubbliche istituzioni devono avere un ruolo attivo nell'economia'. Traspare, prosegue Padoa Schioppa, un giudizio negativo nei confronti del mercato - considerato intrinsecamente 'antisociale' - ed uno positivo nei confronti dell'intervento pubblico - giudicato 'intrinsecamente benefico'. Il decano degli economisti italiani, il prof. Alberto Quadrio Curzio giunge ad affermare che: 'tra l'impostazione liberale favorevole al mercato regolato delle democrazie occidentali e quella comunista-socialista, favorevole alla pianificazione orientale, è prevalsa una linea intermedia propugnata principalmente dai cattolici, che nelle intenzioni di altri poteva essere piegata, se gli eventi lo avessero permesso, verso la soluzione pianificatoria e, nel caso estremo collettista'.
Un giudizio altrettanto radicale sull'insensibilità di una parte significativa dei Padri costituenti nei confronti del mercato è espresso da Giuliano Amato, il quale scrive: 'Del mercato essa (l'Assemblea Costituente) diffida nel momento stesso in cui lo difende (...) essendo in buona parte insensibile a buona parte delle ragioni per cui è giusto e merita farlo'. L'esito sarà una Costituzione economica che oscilla tra una sorta di neocorporativismo ed un larvato dirigismo.
Erano anni in cui dominava la vulgata keynesiana, nessuno avrebbe messo in discussione il modello delle Partecipazioni statali e le cautele e i timori 'ordoliberali' di burocratizzazione, di monopolizzazione e le loro ricette antistataliste, sturzianamente ispirate, apparivano un'inutile zavorra che ai loro occhi avrebbe inevitabilmente rallentato il ciclo economico innestato dalla ricostruzione.
Tale cultura diffidente del mercato, statalista e inconsapevole delle opportunità per i più deboli che il processo concorrenziale è in grado di offrire, sarà nei fatti sconfitta dal processo di unificazione europea. Gli articoli 85, 86 e 90 del Trattato di Roma del 1957, divenuti 81, 82 e 86 del Trattato di Maastricht affermarono il principio di concorrenza come chiave ermenuetica che esprime l'identità economica europea: gli ordoliberali avrebbero usato l'espressione 'Costituzione economica'; la Centesimus annus parla di cornice giuridica che regoli il mercato. Sono vietati gli accordi tra le imprese, tra le associazioni, così come sono proibite tutte quelle pratiche che pregiudichino il mercato e che ne restringano o ne falsino la libera concorrenza, enunciando altresì l'irriducibilità tra la presenza di imprese che abusino della loro eventuale posizione dominante ed il principio di concorrenza.
È vero, dunque, che l'applicazione delle teorie 'ordoliberali' giunge in Italia di recente, e per via indiretta. Tuttavia, non possiamo non riconoscere che il pensiero degli ordoliberali influenzò profondamente ampi settori della cultura economica e politica italiana. In modo particolare, riteniamo che Luigi Sturzo seppe esprimere in modo originale e chiaramente la filosofia sociale dei nostri autori. Rientrato dal lungo esilio (22 anni), Sturzo inizia un'intensa attività pubblicistica su quotidiani e riviste che lo vedrà fortemente critico nei confronti del montante clima statalista di quegli anni. Un clima che si traduceva in orientamenti governativi e parlamentari in materia di intervento statale nell'economia. Orientamenti in netto contrasto con l'economia sociale di mercato e con quel 'personalismo economico' che Sturzo difese e promosse fino alla fine del suo lungo e provato viaggio terreno.

Flavio Felice è Presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton ed Adjunct Fellow dell'American Enterprise Institute